Mignon, film sul cinema hard in estinzione «La pornografia è lo specchio dei tempi»

Mignon è un cinema a luci rosse costruito all’interno di un’antica chiesa sconsacrata. A differenziarlo esternamente da un edificio sacro solo un’insegna al neon e una bacheca in cui ci sono attaccate sopra le locandine. Ma è anche l’unico rimasto in attività a Ferrara e tra i pochi in Italia che propone ancora pellicole pornografiche d’essay, ovvero veri e propri cult che hanno fatto la storia del genere e che, in fatto di qualità, non hanno nulla da invidiare ai film normali. Una storia singolare, raccontata nel documentario Mignon, un lungometraggio firmato da Massimo Alì Mohammad (già conosciuto per il cortometraggio La nonna), autoprodotto e realizzato in collaborazione con l’associazione di promozione sociale Feedback, che sarà proiettato stasera alle 22.30 al cinema King come fuori programma della rassegna Midnight Cult Independent Night.

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Napoletano, 30 anni, madre partenopea e padre pakistano, Massimo si trasferito nella città emiliana per studiare materie umanistiche all’università, perché «non ho avuto il coraggio di fare la scuola di cinema», confessa. Per lui, cinefilo e regista autodidatta, girare un film su questa sala è stata una «scelta istintiva». «Essendo un grande appassionato di cinema di genere – scrive nelle note di regia – ho sempre avuto un debole per il mondo del porno, con il suo misto di trasgressione e malinconica decadenza, e ho capito che, raccontando la storia di questo cinema, ero entrato a contatto con un mondo in procinto di sparire».

A dispetto della tipologia di film che ospita la sala ferrarese, Mignon racconta infatti di un tipo di cinema che non c’è più: quelle monosala di seconda visione, in cui la doppia programmazione era considerata la normalità e il porno – come tutto il cinema di genere – rappresentava in un certo senso una «rivoluzione». «Il film parla di cinema – racconta Massimo – quel cinema vecchio stile, gestito in un certo modo, che funzionava anche come un luogo di ritrovo». Una sala che, anche se a luci rosse, «resiste sul modello del cinematografo di una volta». Sollevando il velo su una realtà che non è poi molto diversa dal panorama a luci rosse della Catania degli anni ’80 e di oggi.

Un lavoro cominciato nel 2009, immediatamente dopo il suo arrivo a Ferrata. «Ho scoperto l’esistenza di una sala pornografica in una chiesa sconsacrata: è una provocazione esistente – racconta – mi sono chiesto come mai nessuno l’avesse mai ripreso e ho deciso di farlo io». Ma come raccontare un argomento taboo come il porno senza cadere nella spirale di stereotipi e luoghi comuni? La riposta Massimo l’ha trovata in un documentario, l’unico strumento che potesse dare voce alle testimonianze dirette di chi al Mignon ci lavora, ma soprattutto alla gente che quel cinema a luci rosse aperto tutto l’anno ci vanno più o meno abitualmente.

Così, telecamera in mano, «ho preso a frequentare la sala e ho conosciuto il cassiere e due proiezionisti: tre uomini di generazioni diverse, con un passato e un retaggio differente, che si sono dimostrati disponibili a raccontarmi del loro lavoro». Il giovane autore al Mignon ci è andato puntualmente per cinque mesi e, tra un film erotico e l’atro – «la parte più buffa e divertente» – ha incontrato tante persone. «Ho scoperto il mondo di chi lo frequenta – spiega – fatto di discrezione, ma anche di storie di solitudine. La maggior parte della gente che ha accettato di raccontarsi vive nel silenzio, ma mi ha dimostrato di avere anche voglia di uscirne» .

Protagonisti del lungometraggio sono il cassiere e i due proiezionisti che, a turni, si occupano delle pellicole. Insieme a loro, i frequentatori della sala. «Persone di tutti i tipi – assicura il regista – senza distinzione di fascia sociale o livello di istruzione» . «Professionisti, pensionati, coppie che vanno per farsi guardare, gente cerca incontri di un certo tipo perché ha ampliato i suoi orizzonti sessuali, fino a chi invece vive una sessualità diversa di nascosto e va lì per soddisfarla», racconta Massimo. Ma ci sono anche semplici cinefili appassionati del genere che, tra dvd moderni e vecchie pellicole, trovano anche parecchi film degli anni ’70 e ’80 che hanno fatto la storia del cinema hard. «Molti neanche ci fann0 caso, ma in mezzo capitano anche film di qualità», assicura.

Perché, come sottolinea il regista, «la pornografia d’autore in pellicola non è morta, ma continua a vivere nelle piccole sale che la propongono». E che, anche tra gli spettatori, mantiene ancora parte del ruolo di «rivoluzione» che rappresentava in passato. «Il porno ha una sua ingenuità – sottolinea il regista – non è impegnato, ma nella cinematografia è stato una provocazione morale, come l’horror e tutti i film di genere». Uno spettacolo «superficiale, ma che vestiva i panni di uno specchio dei tempi, non pretendendo però la finezza di uno storico. E aveva un potere che purtroppo si è spento con il tempo», spiega. Così Massimo ha deciso di raccontare parte di questo mondo, con un suo linguaggio specifico, una sua storia e una sua concezione da parte del pubblico. «Sfidare i taboo mi affascina – dice – cercavo delle posizioni anticonformiste, in sala ne ho trovate di semplici e maliconiche, ma nel loro piccolo genuinamente rivoluzionarie».

Una realtà, quella del Mignon ferrarese, che trova riscontro anche nella Catania delle piccole sale cinematografiche di quartiere, di seconda visione, che proponevano «film che erano già di quart’ordine». Un mondo in estinzione, di cui pian piano si sta perdendo la memoria. «Mignon racconta di un cinema che non c’è più, una sala a luci rosse gestita come un monosala classico degli anni ’70 e ’80 – sottolinea Alberto Surrentino, cinefilo catanese e gestore del cinema King – quando, anche da noi, i cinema a luci rosse erano cinema come gli altri e spesso alternavano programmazione normale a film hard. Non erano insomma altro dal cinema, anche se di serie zeta. Non c’era distinzione».

Fiamma, Sara, Sangiorgi, Messina, ma anche Monachini, Supercinema, Eliseo, Trinacria atri ancora. Cinema di quartiere in cui quando arrivò in Italia, intorno alla seconda metà degli anni ’70, l’hard trovò il terreno più fertile. Anche perché, all’epoca, la concezione del porno era diversa. «Le pellicole erano più soft – chiarisce Surrentino – c’erano sì delle scene erotiche, ma avevano anche una trama, e somigliavano di più al cinema normale». La distinzione «non c’è mai stata formalmente, ma con il tempo, e l’arrivo di tv e videocassette, si è creata nella percezione sociale: la gente, prima, non aveva ben chiaro che cosa fosse davvero il porno e non si scandalizzava a sapere che nella stessa sala in cui portava i bambini la sera, magari nel pomeriggio era stato proiettato un film hard».

Alcune di queste sale non esistono più, altre sono diventate teatri, altre ancora, invece – come è stato per il Mignon – negli anni ’90 si sono convertite in cinema esclusivamente a luci rosse. «Anche per non scomparire», spiega Surrentino. «Con il tempo, l’evoluzione dei gusti e la diffusione sempre maggiore di contenuti in tv e su internet, gli spettatori hanno preferito la modernità, i multisala e le prime visioni, smettendo di frequentare i cinema di quartiere, che per continuare a lavorare si sono dovuti adattare a proporre quello che altrove non si poteva più trovare, ovvero i film erotici», racconta. Caso particolare per Sara, Fiamma e Sangiorgi, le sale che si trovano a San Berillo, ex quartiere a luci rosse etneo, «che scontarono la legge Merlini», racconta Surrentino Scomparse le case chiuse, «le prostitute in stada fecero perdere prestigio alla zona e le sale, per sopravvivere, furono costrette a convertirsi ai soli film porno». Ma tutti, quale più, quale meno, hanno contribuito a fare la storia del cinema a Catania. Come ha fatto il Mignon a Ferrara. A cui, il documentario di Massimo Alì Mohammad, «restituisce la dignità di cinema che merita».


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Una sala a luci rosse costruita in una chiesa sconsacrata di Ferrara è la protagonista del documentario di Massimo Alì Mohammad, giovane regista autodidatta napoletano che racconta, attraverso le testimonianze di dipendenti e frequentatori, storie di solitudine, malinconia e provocazione, ma anche di pellicole erotiche d'autore e di quel cinema che non c'è più, fatto di monosala di quartiere in cui «quelli a luci rosse erano cinema come gli altri e spesso alternavano programmazione normale a film erotici. Non c'era distinzione»

Una sala a luci rosse costruita in una chiesa sconsacrata di Ferrara è la protagonista del documentario di Massimo Alì Mohammad, giovane regista autodidatta napoletano che racconta, attraverso le testimonianze di dipendenti e frequentatori, storie di solitudine, malinconia e provocazione, ma anche di pellicole erotiche d'autore e di quel cinema che non c'è più, fatto di monosala di quartiere in cui «quelli a luci rosse erano cinema come gli altri e spesso alternavano programmazione normale a film erotici. Non c'era distinzione»

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