Il Tribunale ha stabilito che il messaggio pubblicato, nel 2012, dal segretario della Cgil, Lillo Oceano, è stato lesivo dell'immagine dell'allora sindaco Giuseppe Buzzanca. Proprio ieri, una sentenza della Corte di Cassazione ha confermato che scrivere frasi ingiuriose sui social network è passibile di denuncia
Messina, sindacalista condannato per diffamazione In un tweet diede del pinocchio al sindaco Buzzanca
«L’intenzione del sindacalista fu quella di equiparare il sindaco a Pinocchio, personaggio dedito a nascondersi dietro continue menzogne». È questo il motivo che ha portato il Tribunale monocratico di Messina a condannare il segretario della Cgil, Lillo Oceano, a pagare una multa di 300 euro più le spese processuali e il risarcimento della parte civile. A costare caro a Oceano un tweet pubblicato il 24 gennaio 2012: «A Messina si rispettano le tradizioni: alla Provincia Ricevuto, detto Nannibugia, al Comune di Messina Peppinocchio», scrisse il sindacalista sul social. Paragone che non era andato giù all’allora primo cittadino, Giuseppe Buzzanca, che decise di sporgere querela.
A distanza di quattro anni, il pronunciamento del giudice conferma una volta di più che la diffamazione può correre anche su internet. Come confermato, ieri, da una sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato a 1500 euro un uomo, resosi responsabile della pubblicazione di diversi messaggi offensivi nei confronti di un commissario straordinario della Croce Rossa. Identificato, peraltro, con tanto di fotografia che ha fatto presto il giro di Facebook. Azioni che di fatto sono sufficienti a configurare il reato di diffamazione aggravata. Nel caso specifico, la frase incriminata è stata «parassita del sistema clientelare». I giudici della Suprema corte hanno sostenuto la propria decisione ricordando che «la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone e le modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita».
Sull’utilizzo dei social network, si era espresso anche il compianto Umberto Eco, secondo il quale «i social danno anche diritto di parola a legioni di imbecilli». Un rischio a cui oggi va aggiunto quello di essere condannati dalla legge.