Matteo Messina Denaro: c’è un avvocato che gli augura lunga vita e salute. Il caso di Pachino

Matteo Messina Denaro sta male e c’è un avvocato che, per le sorti del suo assistito, si augura possa vivere a lungo e in salute. In grado, almeno, di potere rispondere a una sola domanda: «Conosce ed è amico di Salvatore Giuliano?». Il capomafia di Pachino, attualmente detenuto nella casa circondariale di Sassari (in Sardegna), che nel processo Araba Fenice è stato condannato in primo grado per estorsione aggravata dal metodo mafioso insieme anche al suo braccio destro Giuseppe Vizzini. E sarebbe proprio sulle parole pronunciate da Vizzini, in un dialogo del luglio del 2015 intercettato in macchina – una Fiat Sedici – mentre parla con un uomo che chiama zio Nino, che si presume un rapporto tra il boss della cittadina nella zona sud del Siracusano e l’ormai ex superlatitante di Castelvetrano. Una conversazione che è stata ritenuta «di smisurata rilevanza» dal tribunale ma su cui l’avvocato Giuseppe Gurrieri, che difende Giuliano, vorrebbe vederci chiaro. Soprattutto alla luce delle dichiarazioni che, nel corso del procedimento, ha fatto il vicequestore della squadra mobile di Siracusa Rosario Scalisi che, da dirigente della sezione criminalità organizzata, si era occupato delle indagini sul mercato ortofrutticolo di Pachino in mano al clan mafioso.

«Tutto l’asse si è spostato a Pachino ormai […] hai visto che sono venute persone di Messina Denaro […] Minchia, mai l’ho visto a Ture (Giuliano, ndr) così. È venuta gente da Trapani per un fatto di una storia di Trapani, e cose…dice…trasporti…cose nella zona di Palermo». Inizia così questa parte del discorso intercettato di Vizzini in auto. Persone che sarebbero andate da Trapani a Pachino per parlare con Giuliano e che, sempre a dire di Vizzini, sarebbero stati trattati dal boss pachinese in malo modo. «Perché lui lo sa come funziona…”E allora se voi state venendo con questa cosa…non è nel Dna mio e di Messina Denaro…allora se lui mi sta mettendo così… allora ti dico che me la suca. Allora ti dico che me la suca pure Messina Denaro…qui comandiamo noi!…e mandateglielo a dire e poi mi portate la risposta. State venendo a nome di un amico mio“». Parole che sarebbero state dette da Giuliano e che Vizzini riporta a zio Nino. Insomma esponenti di Cosa nostra del Trapanese sarebbero stati mandati direttamente da Messina Denaro – all’epoca latitante – a Pachino per discutere di una questione di trasporti ma sarebbero stati respinti da Giuliano perché avrebbero avanzato pretese eccessive. Una frase, pronunciata a voce bassa e con il volume della radio alzato, che lascia intendere che Giuliano e Messina Denaro non solo si conoscerebbero ma sarebbero addirittura amici.

«È chiaro che magari, alle volte, Vizzini tende un po’ a esaltare la figura del suo capo, del suo punto di riferimento – dichiara il vicequestore Scalisi sentito a processo come testimone – però ci sono dei dati oggettivi». Dati oggetti che riguarderebbero i rapporti di Giuliano con altri esponenti: quelli del clan Trigilia di Noto e quelli del clan Cappello di Catania. «In alcuni passaggi – continua il teste – Giuliano vuole incontrarsi con Massimiliano Salvo (considerato il nuovo capo del clan Cappello, ndr)». Entrambi sottoposti a limitazioni della libertà personale, l’escamotage a cui avrebbe pensato Giuliano per incontrarlo sarebbe stato quello di farsi dare un’autorizzazione per un appuntamento per una protesti dentaria nel Catanese. Un permesso che però non sarebbe nemmeno poi mai stato chiesto. Su quell’episodio di emissari dell’ex primula rossa di Cosa nostra mandati a Pachino non ci sarebbe nessun riscontro. Ed è lo stesso Scalisi ad affermarlo «anche perché l’episodio non viene collocato temporalmente». In pratica, dalle indagini non risulta che ci siano stati contatti o interferenze tra i due. Quelle di Vizzini «sono affermazioni ridondanti, iperboliche – precisa il vicequestore – Tende a esaltare un po’ la situazione, però è sicuro che comunque a Pachino il clan Giuliano avesse una incidenza forte. Si evince che c’è molto timore».

Per l’accusa, in quel momento, Giuliano – che era stato scarcerato a maggio del 2013 – avrebbe avuto l’obiettivo di ricostruire il gruppo mafioso da lui già promosso e diretto fin dai primi anni Novanta condizionando le attività economiche della zona, in particolare del mercato ortofrutticolo con la società La Fenice. Un sodalizio che, negli anni, era stato indebolito dalla lunga detenzione del boss e dagli arresti di altri affiliati. «Se cade Ture, ci mangiano», dice ancora Vizzini parlando, però, di una possibilità che non sembra preoccuparlo davvero. Almeno a giudicare dal seguito della conversazione. «L’altro ieri siamo stati a Vittoria, i tappeti rossi a terra […] Poi a Catania, Turi Cappello (boss mafioso a capo dell’omonimo clan etneo, ndr) con lui sono come i fratelli, mentre certuni si scannano come i capretti». Per Vizzini, insomma, «tutte cose Ture ha nelle mani».

Dopo le condanne in primo grado, adesso il processo d’Appello Araba Fenice è nella fase delle richieste istruttorie. E, così, già a fine febbraio – un mese dopo l’arresto – il legale di Giuliano ha chiesto di potere interrogare Matteo Messina Denaro. Questo alla luce del fatto il tribunale ha riconosciuto «piena e incondizionata efficacia probatoria al contenuto delle conversazioni intercettate», mentre nel corso della testimonianza del vicequestore a processo sarebbe emersa «l’insussistenza dei racconti di Giuseppe Vizzini». Per questo, l’avvocato chiede di potere chiamare a testimoniare proprio Matteo Messina Denaro «in relazione agli asseriti rapporti di conoscenza, se non addirittura di amicizia tra lo stesso e l’imputato Salvatore Giuliano e in relazione al fatto che Messina Denaro abbia inviato suoi emissari a Pachino per parlare con Giuliano». La corte d’Appello si è riservata di sciogliere la riserva sulla richiesta nel corso della prossima udienza che è già stata fissata per il 13 ottobre. Nell’attesa di capire se le condizioni di salute di Messina Denaro lo permetteranno.


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