Marco Napoli, ventisettenne mastro puparo «Un’arte antica che piace anche ai giovani»

Si chiama Marco, ha 27 anni e di mestiere fa il puparo. Ma per lui Orlando, Rinaldo, Ruggero e Bradamante non sono semplici paladini. Perché Marco è «’u nicu» della famiglia che, da Catania, ha fatto la storia dell’opera dei Pupi in Sicilia e nel mondo: i fratelli Napoli. E attorno al suo cognome girano oltre cento anni di arte e tradizione. Ultimo di tre fratelli, insieme a loro ha intrapreso ‘u misteri di suo padre e dei suoi zii «in maniera naturalissima – spiega – perché lo sentivo dentro ed è diventato parte del mio dna». Attività in cui spende tutto il suo tempo. Sì, perché lui a muovere i pupi ha cominciato da bambino e adesso – messo da parte il diploma di perito informatico – a questa passione si dedica a tempo pieno, come lavoro e come missione: «Far capire al mondo che l’opera dei pupi è viva e vegeta». Perché «chi ha la possibilità di avere a che fare con questo mondo se ne innamora», dice senza mezzi termini.

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Un amore nato anche grazie alla sua città, Catania, in cui il rapporto tra antico e nuovo, passato e presente, si respira nelle storie dei vicoli, dei luoghi nascosti. Come nella bottega di via Reitano 55, in cui Marco è cresciuto tra «le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie e l’audaci imprese». Dove, a pochi passi dal Castello Ursino, il Medioevo di Carlo Magno si mescolava ai carretti siciliani con i paladini che il suo bisnonno riparava proprio in quella putìa. Don Gaetano Napoli – da cui tutto è cominciato – prima di diventare puparo faceva «’u siddunaru», costruendo e manutenzionando le selle dei cavalli. Finché, tra il primo e il secondo decennio del ‘900, per arrotondare comprò i suoi primi pupi, imparando l’arte marionettistica. Il talento c’era e il successo non tardò ad arrivare, dando vita ad una storia che, da allora, non si è mai fermata, fino alle sua quarta generazione.

Don Gaetano, infatti, trasmise il mestiere di mastro puparo ai suoi tre figli: Giuseppe, Rosario e Natale. Quest’ultimo, dopo la guerra, prese in mano le redini della bottega. «I miei pupi sono vivi – disse al fratello Pippo – e devono continuare a vivere», racconta il nipote. Una passione che ha contagiato anche i suoi quattro figli, Gaetano, Giuseppe, Salvatore e Fiorenzo che oggi si occupano di portare avanti il nome della famiglia più famosa nell’opera dei pupi di scuola catanese. «Lo zio Pippo – riassume Marco – dipinge gli scenari e fa u manianti, ovvero muove i pupi. Lo zio Gaetano e mio padre Fiorenzo sono parraturi, cioè parlano i pupi maschi, mentre lo zio Turi si occupa di effetti luce e suoni. Anche la nonna Italia, all’età di 88 anni, fa la parratrici, dando ancora oggi la voce alle sue principesse guerriere».

In quest’ambiente non innamorarsi del mestriere risulta impossibile. Marco non si ricorda quanti anni aveva quando ha preso in mano il primo pupo, ma già da piccolissimo faceva «‘u pruituri», aiutando gli zii durante gli spettacoli. «Gli animatori catanesi lavorano su un ponteggio da cui non possono scendere e su cui si muovono da ritta a manca – spiega – e hanno bisogno di un assistente di palcoscenico che li aiuti a cambiare personaggio agevolmente. Nelle famiglie di pupari i bambini cominciano sempre così». Ma Marco voleva imparare presto a dare vita sulla scena alle battaglie dei paladini. «A otto anni spiavo le mani dello zio Pino e le tecniche vocali di mio padre, per apprendere il mestiere e salire sul ponteggio prima possibile». Una volta saliti per tenere fermi i primi soldatini – confessa – diventa un crescendo. «Non vedevo l’ora di ricevere anche io il mio battesimo da manianti». Uno zoccolo al piede destro per battere il ritmo dei movimenti del pupo e sincronizzarli alla voce del parlatore, e u mantale, un grembiule di olona, per proteggersi dallo sfregamento del busto contro la barra di legno del ponte di scena.

Oggi Marco su quel ponteggio, coi ferri del pupo in mano e lo zoccolo al piede, sembra esserci nato. Lo stesso vale per i suoi fratelli, Davide e Dario, di 35 e 32 anni. «E’ un mestiere che portiamo avanti da quando siamo al mondo. Lo facciamo con amore e abbiamo il desiderio di farlo conoscere anche fuori». Infatti, oltre all’animazione, i piccoli di famiglia si occupano anche della divulgazione di quest’arte antica, organizzando laboratori didattici di artigianato e portando, da più di dieci anni, l’opera dei pupi nelle scuole. «In modo che anche i bambini possano conoscere questa tradizione che ci appartiene». Perché, anche se può sembrare uno spettacolo anacronistico e fuori moda, le avventure di Orlando e Carlo Magno continuano ad affascinare grandi e piccini. «Anche i giovani si innamorano di quest’arte», garantisce Marco. I più piccoli, poi, la vivono come una «cosa nuova, diversa dai cartoni animati e videogiochi, in cui si sentono partecipi e stabiliscono fin dall’infanzia un legame forte con le tradizioni locali».

Un lavoro di diffusione che la nuova generazione persegue anche grazie ad internet e nuove tecnologie. «Facebook e Youtube ci aiutano perché basta un clic a farci raggiungere un sacco di persone». O come l’introduzione di nuovi effetti scenici, tecniche di movimento e riadattamenti di copioni e canovacci storici studiati ad hoc per sedurre un pubblico sempre nuovo. Un’apertura verso l’innovazione, ma senza mai dimenticare le storie tradizionali, che «da sempre ci impegnamo a preservare», assicura Marco. Il risultato è un mix che resiste al cambiamento dei tempi e riscuote ancora un grande successo. «Dovunque andiamo la gente sente quello che trasmettiamo, l’emozione che proviamo, e si emoziona a sua volta. Questo riscontro, che non ci manca mai, è quello che ci sprona ad andare avanti».

Anche se, confessa Marco, «le difficoltà sono tante». Fare uno spettacolo è molto faticoso, non solo a livello fisico. Non ci sono più teatri per l’opera dei pupi e l’assenza di un luogo stabile si fa sentire. «Per esibirci dobbiamo portarci tutto dietro, dai pupi, al palco, ai ferri, agli impianti luce e di amplificazione. Con un dispendio economico enorme». Ancor di più quando bisogna uscire dall’Isola. «La mia famiglia ha girato il mondo, dagli Stati Uniti alla Cina passando per tutta l’Europa, ma adesso viaggiare è diventato proibitivo. Recentemente ci hanno contattati dal Giappone, dal Kenia e persino da Dubai. La voglia c’è, ma l’aspetto economico blocca chi ha la voglia di vedere i pupi». In più, la crisi ha amplificato i costi e ha aperto la strada alla concorrenza di «compagnie improvvisate, più economiche, ma alle quali manca una tradizione come la nostra».

Senza contare l’assenza di supporto dalle istituzioni, senza le quali, denuncia Marco, l’opera dei pupi rischia di morire. «Abbiamo solo le nostre forze. Noi ce la mettiamo tutta ma senza un sostegno diventa molto difficile». A cominciare da un luogo in cui conservare i materiali secolari – «di inestimabile valore storico-culturale» – sempre promesso da comune e provincia, mai realizzato. «Non abbiamo mai visto nulla. Sindaco dopo sindaco, presidente dopo presidente, li vedi una settimana dopo le elezioni e poi spariscono». E i pupi che hanno fatto la storia di Catania erano «abbandonati a marcire in un deposito pieno di topi e umidità», lamenta il giovane. «Fortunatamente alcune realtà private hanno creduto in quest’arte e ci hanno dato uno spazio». Lo scorso giugno, infatti, all’interno della Vecchia Dogana, è stato inaugurato il museo-teatro della marionettistica dei fratelli Napoli. Un luogo, nel cuore della città, in cui si respira le stessa atmosfera dello storico teatro Etna, inaugurato da don Gaetano nel 1921. Anche se in molti non sanno che a Catania esiste un Teatro stabile dell’opera dei pupi, situato all’interno delle Ciminiere, ma che «purtroppo viene utilizzato solo mezza dozzina di volte l’anno», dice Marco rammaricato.

Nonostante le difficoltà e le amarezze, Marco è ottimista e nella sua città ci crede. Ma ammette che «è più facile fare uno spettacolo fuori, piuttosto che lavorare in città». Tra dieci anni però si vede solo più vecchio, ma sempre a Catania. Con i suoi pupi. Mentre lo dice, la voce tradisce un po’ di emozione. «Finché mi verrà la pelle d’oca quando parlo di loro, troverò sempre la voglia di andare avanti. Basta questo a farmi passare tutte le paure».

Perla Maria Gubernale

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