Per la magistrata Raffaella Vinciguerra sono tutti colpevoli. E, nonostante le richieste di condanna diverse, tutti dovrebbero pagare. È il l’ultimo atto giudiziario – in ordine di tempo – della vicenda del cosiddetto mailgate all’università di Catania: le elezioni regionali del 2012 erano alle porte e a studenti e docenti dell’ateneo era arrivata una email che invitava a votare per la candidata Udc Maria Elena Grassi. Esponente dello stesso partito del rettore di quegli anni, Antonino Recca. Da allora di strada ne è passata e il processo è cominciato, entrato nel vivo ed è sul punto di terminare. Sul banco degli imputati siedono Tony Recca, il dipendente Antonio Di Maria (marito della candidata) ed Enrico Commis, all’epoca dei fatti responsabile dell’area informatica di Unict. Per il primo, la procura ha chiesto una pena di sei anni: le accuse sono di violazione del segreto d’ufficio, della normativa sulla privacy e di avere formulato promesse in cambio di una menzogna ai magistrati. Diverse sono, invece, le posizioni di Di Maria (chiesta condanna a due anni) e Commis (chiesti tre anni): il reato contestato a entrambi è solo quello di violazione del segreto d’ufficio.
«Che posso fare? Ficimu ‘sta minchiata», diceva l’ex magnifico in una registrazione pubblicata da MeridioNews (allora Ctzen). Secondo la ricostruzione, i circa 22mila contatti a disposizione dell’università di Catania avrebbero dovuto essere usati esclusivamente a scopo didattico, perché era per quel fine che erano stati consegnati da studenti e docenti dell’ateneo. L’11 settembre, Enrico Commis invia al rettore Recca una email con l’indirizzario; il giorno dopo quel messaggio viene inoltrato a Di Maria. Si arriva così a sabato 15 settembre. Quando Daniele Di Maria, figlio di Maria Elena Grassi e di Antonio Di Maria, tenta un primo invio del messaggio elettorale. Il giovane supporter e la madre, coinvolti nell’inchiesta in un primo momento, vengono poi esclusi da un’archiviazione. In ogni caso, il primo tentativo di spedizione a tutte quelle persone non va a buon fine.
Passano due giorni e stavolta l’invio funziona. Dando il via alle polemiche che ne sono seguite. Il 19 settembre, però, allo stesso indirizzario arriva una seconda email in tutto simile alla prima. Soltanto che si tenta di smontare la tesi, sostenuta dal Movimento studentesco catanese di allora, secondo la quale il messaggio era partito dai server dell’università. Cosa che, secondo il giovane Di Maria, sarebbe stata possibile collegandosi anche tramite wireless alla rete dell’ateneo. Non spiegava, però, come fosse venuto in possesso di un indirizzario al quale non avrebbe dovuto avere accesso. Per fare luce su questo aspetto, interviene la magistratura con l’inchiesta giudiziaria. A cinque anni di distanza da quelle elezioni, questa storia si avvicina alla chiusura di un nuovo capitolo.
L’ateneo, parte civile nel processo, ha chiesto la condanna solo per due imputati: Recca e Di Maria, ai quali è richiesto un risarcimento danni del valore di centomila euro. L’esclusione di Commis dall’intervento dell’università, per il suo legale, sottolinea l’estraneità dell’esperto alla vicenda. Secondo la difesa, il motivo per il quale fosse necessario fornire l’indirizzario non era noto, né si sarebbe trattato di un’operazione fuori dalla norma. Nel corso della prossima udienza, dopo le requisitorie degli avvocati degli imputati, toccherà a eventuali repliche. L’appuntamento è fissato per il 23 gennaio 2018. La sentenza potrebbe essere vicina.
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