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Nessun dubbio sul fatto che Vincenzo Santapaola abbia esercitato i suoi poteri di capo partecipando alle più importanti decisioni e dando ordini». Così i giudici di Catania spiegano la condanna di primo grado a 18 anni inflitta al figlio maggiore del sanguinario capomafia Benedetto che avrebbe preso le redini di Cosa Nostra catanese. Un passaggio di padre in figlio, «almeno dal 2005» scrivono nelle motivazioni della sentenza del processo ordinario Iblis. Santapaola junior, dopo l’assoluzione nell’inchiesta Orsa Maggiore del 1993 e la condanna a sette anni nell’inchiesta Orione – in cui viene escluso il suo ruolo di capo – è attualmente recluso a Rebibbia. Conosciuto con il diminutivo di Enzuccio o Enzu u nicu (il piccolo, ndr) per distinguerlo da un cugino, viene arrestato per l’ultima volta nel marzo 2012.
Per i giudici, decisive sono state le accuse dei
collaboratori di giustizia. Santapaola Jr, infatti, nonostante il presunto ruolo di vertice, non è stato oggetto di intercettazioni telefoniche e ambientali, pedinamenti o appostamenti. Nelle 80mila pagine dell’inchiesta il suo nome compare poco o nulla. «Le indagini – spiegava in udienza il colonnello del Ros Lucio Arcidiacono – si concentrarono su Enzo Aiello (capo provinciale di Cosa nostra, ndr), tutte le altre attività che sono state svolte su altri personaggi sono derivate dai rapporti che questi avevano con Aiello».
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Il grande accusatore, Santo La Causa
L’ex reggente della famiglia mafiosa catanese è stato il principale accusatore di Vincenzo Santapaola. A cui racconta di essersi rivolto quando aveva intenzione di allontanarsi da Cosa nostra perché «la sua parola era quella che contava». Tuttavia La Causa, rimesso in libertà nel 2006, avrebbe ricevuto l’ordine proprio da Enzuccio di tornare operativo per fronteggiare la gestione del cugino di quest’ultimo, Angelo Santapaola: «Il quale – precisano i giudici – non era in grado di gestire l’associazione che era precipitata nel caos». Una confusione interna che culmina nel duplice omicidio di Angelo e del suo guardia spalle Nicola Sedici. Inghiottiti dalla lupara bianca con i corpi ritrovati in un casolare carbonizzati e irriconoscibili il 30 settembre 2007. A stabilirne l’esecuzione, secondo La Causa, sarebbe stato proprio Enzo Santapaola dopo che il cugino aveva preso contatti con i capimafia palermitani Salvatore e Sandro Lo Piccolo. Alla base c’era la creazione di un nuovo asse tra Palermo e Catania.
Un capo dietro le quinte
«Loro (i Lo Piccolo, ndr) – racconta La Causa – il contatto lo volevano prendere con Enzo ma non ci riuscirono per coincidenze. Però è anche vero che Enzo Santapaola non voleva dare la sua faccia ad incontrarsi con i palermitani, sempre per non incorrere in guai giudiziari, cioè lui aveva stabilito che doveva essere il capo, ma dietro di me». Il canale diretto con il figlio di Nitto non si aprì mai tanto da fargli guadagnare l’appellativo di «u fantasma». «Si può affermare – concludono i giudici – che Vincenzo Santapaola rimase nell’associazione anche nel periodo successivo alla condanna, ma frattanto assunse anche il ruolo di capo in quanto successore del padre».
L’organizzazione in provincia
Ad aiutare Santapaola Jr a svolgere il suo ruolo di capo-ombra ci sarebbe stato anche Vincenzo Aiello. Cassiere di Cosa nostra etnea negli anni ’90, fa carriera fino a diventare il rappresentante provinciale della famiglia, curando i contatti con i boss palermitani, con gli imprenditori e con i responsabili della provincia. Come Rosario Di Dio nel «ruolo di comandante» e Pasquale Oliva, detto il massaro, responsabile del Calatino, tra Palagonia, Ramacca e Caltagirone. «Di Dio poteva contare su Pasquale Oliva, come Pasquale Oliva poteva contare su Di Dio», riassume il pentito La Causa. Compari in famiglia – dopo il matrimonio dei figli -, per entrambi sono arrivate due condanne tra le più dure di Iblis: a 20 anni per Di Dio e a 18 anni per Oliva.
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