Mafia, storia del pentito Leonardo Vitale Il cugino: «È stato un martire della fede»

«Sono un cugino di Leonardo Vitale, il primo, vero, pentito di mafia per ritrovata fede in Dio e per motivi di coscienza, e mi sto interessando affinché la Santa Madre Chiesa ne riconosca l’eroismo canonizzandolo quale martire della fede». E’ la battaglia personale di Francesco Paolo Vitale, cugino di secondo grado dell’uomo d’onore palermitano che, negli anni ’70, fu tra i primi a denunciare spontaneamente i crimini di Cosa nostra. E che per questo fu prima dichiarato pazzo e poi, dopo più di dieci anni passati tra carceri e manicomi criminali, appena tornato in libertà fu ammazzato a colpi di lupara una domenica mattina alla fine del 1984, all’uscita dalla messa.

Adesso, a distanza di quasi 30 anni dall’uccisione del cugino, Francesco Vitale – membro dell’Ordine francescano secolare e con alle spalle una famiglia dal forte radicamento religioso – ne è convinto più che mai: Leuccio – come lo chiama affettuosamente – non fu solo il primo a confessare alla giustizia i crimini della mafia. In lui il pentimento rappresentò qualcosa di più profondo. «Possono chiamare pazzo pure me – afferma – Ma oggi dove sono i mafiosi che si pentono per fede e non per interesse? Lui lo fece solo per liberarsi dal male fatto e tornare nella grazia di Dio». A testimoniarlo, oltre ai racconti diretti di chi lo incontrò dopo gli anni passati in cella, alcune lettere inviate alla famiglia durante la reclusione, in carcere e in manicomio criminale. Missive che il cugino definisce «piene di fede, in cui ripeteva spesso: “Lo faccio affinché gli altri si convertano“, e che testimoniano la sua stessa conversione», racconta. Per questo dal 2007 – quasi in contemporanea all’uscita del film L’uomo di vetro, basato sul romanzo di Salvatore Parlagreco ed incentrato proprio sulla storia di Leonardo Vitale – il cugino Francesco si impegna a raccogliere testimonianze che possano confermare la sua tesi: la conversione, le sofferenze patite in manicomio e l’assassinio ne farebbero un martire della fede. Per poter chiedere così alla chiesa di aprire una causa di beatificazione.

Per raggiungere il suo obiettivo, Francesco Vitale ha fondato l’associazione Leonardo Vitale, di cui è il presidente, nata con lo scopo di «fare conoscere l’eroismo di Leonardo e il suo esempio forte di chi è riuscito a uscire dal fango», spiega. Insieme a un sito web, in cui racconta la storia della conversione del cugino e raccoglie testimonianze sulla sua vita da ragazzino e da adulto, utili per aprire il processo di canonizzazione. Per il quale, spiega, non servono prove, ma testimonianze. «E’ stato un martire, non un santo, e quindi non ha fatto miracoli che devono essere dimostrati». La decisione spetterà poi alla comunità cristiana. «Ho già chiesto un incontro al vescovo di Palermo – continua – Città in cui Leonardo è morto, ma non ho ancora avuto risposta». Nel frattempo, Francesco Vitale si fa portavoce della storia del cugino attraverso i media, eventi e incontri. «Sono stato invitato in diverse scuole in giro per la Sicilia – racconta – e la domanda che i ragazzi mi rivolgono più di frequente è “Lei pensa che qualcuno che ha ucciso persone possa essere dichiarato beato?“. La storia del cristianesimo lo dimostra: se io ho sbagliato, me ne rendo conto, mi pento davvero e cambio vita, davanti a Dio conta da quel momento in poi, da quando si ritorna nella sua grazia».

Una storia, quella di Leonardo Vitale, che assume i tratti della vicenda di un antieroe. Affiliato alla cosca Altarello di Baida, capeggiata dallo zio paterno Gianbattista, detto Titta, a cui si avvicinò da ragazzino dopo la perdita del padre, la sua carriera da uomo d‘onore proseguì tra omicidi ed estorsioni fino al 1972, quando fu arrestato perché sospettato di essere implicato nel sequestro del costruttore Luciano Cassina. La permanenza in cella, però, fece scattare in lui la molla del pentimento. «In prigione ha ritrovato la fede in Dio e da quel momento non l’ha più abbandonata», spiega il cugino Francesco. Una «conversione» che, il 29 marzo del 1973, lo portò a presentarsi di sua volontà davanti agli uomini della squadra mobile di Palermo (allora guidata da Bruno Contrada), spezzando il patto di omertà con la mafia. E dando inizio a quello che il cugino chiama il suo «percorso di ravvedimento» in cui rompere con un passato da criminale, assassino, mafioso. «Si è presentato spontaneamente in Questura – spiega il cugino – E mi è stato raccontato che, durante l’interrogatorio, ad ogni confessione diceva “Grazie a Dio adesso mi sento più leggero”».

Il suo pentimento fu «un atto di coraggio» secondo il Francesco Vitale, perché «all’epoca chi tradiva la mafia ci lasciava la pelle». Eppure il collaboratore di giustizia fece volontariamente nomi e cognomi eccellenti e denunciò i suoi crimini, insieme ad affari, delitti e riti di un’organizzazione criminale allora coperta da una spessa coltre di silenzio. Nelle lettere che inviava dal carcere alla famiglia raccontava di «sentirsi finalmente libero perché convinto che le sue rivelazioni avrebbero liberato la Sicilia dal bubbone della mafia», spiega il cugino. «Intendo aiutare la legge e la giustizia a stroncare questo cancro che infesta la nostra terra e così nello stesso tempo dare la possibilità a tutte queste anime di entrare nella grazia di Dio col pentimento dei nostri peccati – scriveva lo stesso Vitale alla mamma e alla sorella Maria – Capite cosa fa la mafia, avete idea di tutti i crimini che commette solo per raggiungere lo scopo di guadagnare soldi, il vile denaro? Chi siamo noi, miserabili uomini che ci arroghiamo il diritto di giustiziare dei nostri simili, i nostri fratelli, di sostituirci a Dio Onnipotente nel dare la morte?».

Ma, in sede di processo, le sue accuse caddero – «i fatti non sussistono» – e Vitale, che nel frattempo era stato richiuso nel carcere palermitano dell’Ucciardone, non venne creduto. Sottoposto a numerose perizie psichiatriche, fu dichiarato malato di mente e trasferito nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto. Nello stesso anno in cui finì di scontare la pena, arrivò anche la vendetta della mafia, che lo uccise a pistolettate in faccia. «Sapeva che lo avrebbero ammazzato, ma non aveva paura», racconta il cugino. «Ogni giorno andava a messa ed era sereno e sempre sorridente perché aveva saldato il conto con la società». Il cugino ne è certo: Leuccio era intenzionato a cambiare vita. «Ricordo che all’epoca ero ministro responsabile dell’Ordine dei francescani e, tornato in libertà, Leonardo venne da me per esprimermi la volontà di diventare frate francescano – racconta – Il piacere però non gliel’hanno dato: lo hanno ammazzato prima».

[Foto di LeonardoVitale.it]


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Sono passati quasi 30 anni dalla morte dell'uomo d'onore palermitano che negli anni '70 denunciò i crimini di Cosa nostra e che per questo fu prima accusato di essere pazzo dalle autorità e poi ammazzato dai suoi ex sodali. Adesso, il cugino di secondo grado si sta interessando affinché la chiesa inizi un processo di canonizzazione nei suoi confronti. Il motivo? La conversione religiosa che fece nascere in lui il bisogno di pentirsi. «Lo fece per liberarsi dal male fatto e tornare nella grazia di Dio», spiega Francesco Vitale a CTzen

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