Mafia Nebrodi, in manette Mario Montagno Bozzone «Pericolo concreto di fuga con il supporto del clan»

«Pericolo concreto e attuale di fuga, trattandosi di un soggetto contiguo al sodalizio mafioso operante nel territorio di Bronte e che dunque potrebbe rendersi irreperibile avvalendosi del supporto economico e logistico fornito dal clan mafioso». Sono queste le parole con cui è stata disposto il trasferimento nella casa circondariale di piazza Lanza di Mario Montagno Bozzone. A prelevarlo gli agenti della Squadra mobile di Catania insieme a quelli del commissariato di Pubblica sicurezza di Adrano. Condannato a 22 anni di carcere appena tre giorni fa, nel processo d’appello per l’omicidio di Giuseppe Gullotti. Lo stesso in cui Mario Motnagno è finito alla sbarra insieme al fratello Francesco, ritenuto uno dei vertici del clan Mazzei nel territorio pedemontano. Per lui la corte d’assise d’appello ha confermato il giudizio di primo grado, con la pena dell’ergastolo. Sentenza che l’imputato ha ascoltato in collegamento dal carcere di Milano Opera dove si trova ormai da diversi anni. 

Il delitto Gullotti, e il processo che ne è seguito, ha una storia lunga e travagliata. Che ha segnato in maniera netta la spaccatura all’interno dei clan locali. Oggi inabissati in una stagione di non belligeranza ma, a cavallo del nuovo millennio, protagonisti di una sanguinosa guerra di mafia con decine di morti ammazzati. Nell’elenco compare anche il nome di Gullotti, sulla carta allevatore ma secondo gli investigatori vicino alle posizioni di Salvatore Turi Catania. Antagonista di Montagno Bozzone perché referente della famiglia di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano a Bronte.

L’obiettivo dei sicari muore nel 2006quattro anni dopo l’agguato. Consumato a cavallo tra i territori di Cesarò e Bronte, mentre l’uomo attraversava un ponte a bordo del suo fuoristrada. Per bloccarlo, i killer utilizzarono una macchina rubata a un vigile urbano di Catania. Sparati i primi colpi, Gullotti tentò la fuga percorrendo la strada in retromarcia. Fatto che non fece desistere i sicari che riuscirono a colpirlo ancora, senza però ucciderlo. Davanti a carabinieri e magistrati la vittima non rivelò mai nomi e cognomi dei presunti autori. Ma cercò di ricostruire i contorni della vicenda.

Per arrivare ai fratelli Montagno e al loro ruolo, l’accusa si è basata su una serie di intercettazioni ambientalile stesse che la difesa durante i processi di primo e secondo grado a più riprese ha bollato come non utilizzabili. «Ciccio Montagno – scrivevano i giudici nelle motivazioni della sentenza di primo grado – fu componente del gruppo di fuoco. Mario Montagno – aggiungono – diede il proprio apporto seguendo i movimenti della vittima per coglierne le abitudini e individuare il momento propizio per l’agguato». Nel 2018 aveva fatto discutere la presenza di quest’ultimo durante un comizio politico nella vicina Maletto.

Il boss Ciccio Montagno è riuscito a sfuggire a due agguati: nel giugno 2000 e nel novembre 2001. Nel primo caso, gli spararono in bocca mentre si trovava in un bar di Bronte, ma il proiettile gli trapassò la guancia, poi ricostruita con un intervento di chirurgia plastica. La volta successiva, i killer provarono a ucciderlo in pieno giorno nella centralissima piazza Spedalieri. In manette, tre giorni dopo, finirono Claudio Reale – poi scampato a un agguato nel 2009 – Antonio Triscari e Daniele Salvà Gagliolo


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