L'uomo della strage di Capaci racconta il progetto, già svelato nel 2014 da Gaspare Spatuzza, di ricavare soldi dal sequestro di Antonio Ardizzone. Nessuna accusa all'editore etneo e sul quotidiano di via Lincoln dice: «Un giornalista scriveva bene dei Salvo»
Mafia, il pentito Giovanni Brusca al processo Ciancio «C’era l’idea di rapire l’editore del Giornale di Sicilia»
I pentiti ci sono, o almeno sono pronti a rispondere alle domande dei magistrati, ma a mancare è il video collegamento con le aule del palazzo di giustizia di Catania. Così l’ultima udienza del processo per concorso esterno in associazione mafiosa a Mario Ciancio Sanfilippo si conclude in meno di un ora. Giusto il tempo di ascoltare i racconti di Giovanni Brusca. L’unico con cui è possibile stabilire il contatto perché detenuto nel carcere romano di Regina Coeli. Oggi pentito ma con un passato da reggente mafioso a San Giuseppe Jato, in provincia di Palermo, Brusca è stato uno dei luogotenenti più fidati della belva Totò Riina. Salvo poi iniziare a collaborare con i magistrati di Palermo e Caltanissetta tre giorni dopo l’arresto datato 20 maggio 1996. Bisognerà invece aspettare la prossima udienza, fissata per metà gennaio, per sentire i pentiti catanesi Santo La Causa e Gaetano D’Aquino.
Nel passato di Brusca c’è una storia fatta di tanto sangue e uccisioni eccellenti. Da Rocco Chinnici al piccolo Giuseppe Di Matteo, fino a Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della sua scorta. È proprio il boss della provincia di Palermo, oggi 61enne, che il 23 maggio 1992 preme il pulsante che fa saltare in aria l’autostrada nei pressi di Capaci. Nell’aula dedicata alla memoria dell’avvocato Serafino Famà questo pomeriggio però non si parla di stragi. Attraverso le sue risposte Brusca non nomina mai il nome di Ciancio e gli unici riferimenti al mondo dell’informazione arrivano sulla sponda di Palermo con il Giornale di Sicilia. «Non conosco particolari in questo ambito – preannuncia dopo la domanda precisa del pm Antonino Fanara – ma ultimamente c’era Pino Lipari che voleva sequestrare il titolare Ardizzone per fare un’estorsione». Siamo, stando al suo racconto, nei primi anni ’90, subito dopo la strage di Capaci, e nel mirino di Cosa nostra sarebbe finito Antonio Ardizzone, editore e dal 1982 direttore del giornale di via Lincoln. L’aneddoto tuttavia non è la prima volta che viene svelato in un’aula di giustizia. Quattro anni fa era stato il pentito Gaspare Spatuzza a raccontare dello stesso piano ma nel processo sulla trattativa Stato-mafia. C’è poi il presunto legame che qualche giornalista avrebbe avuto con i cugini mafiosi di Salemi Ignazio e Antonio Salvo. «Si diceva – aggiunge Brusca – che il giornale aveva rapporti con loro e qualche articolista ne scriveva anche bene». I nomi però Brusca non li ricorda, nonostante provi a farfugliare un cognome.
Il boia di Capaci nei suoi racconti si sposta anche nella parte orientale dell’Isola. Prima gli tocca elencare tutti i boss con cui avrebbe avuto rapporti. «Ho conosciuto Nitto Santapaola, Franco Romeo, Aldo Ercolano, Eugenio Galea e Vincenzo Aiello». I rapporti però si sarebbero estesi anche al mondo imprenditoriale. Settore dove spadroneggiava Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra: «I rapporti li teneva lui, anche se non era formalmente affiliato». Siino, stando alle parole di Brusca, si sarebbe occupato anche di Catania e dintorni. «C’erano i cavalieri del lavoro e tra questi Costanzo», spiega il pentito. Quest’ultimo «aveva interessi anche a Palermo per la realizzazione di una strada a scorrimento veloce vicino Corleone. Erano grossi amici di Riina e una volta li ho pure visti insieme in un appartamento di via Alcide De Gasperi. C’erano anche i cugini Salvo e Pino Lipari».
Gli ultimi riferimenti sono per tutta una serie di personaggi che Brusca avrebbe conosciuto durante la sua carriera criminale. Uno di questi è Giovanni Mercadante. Radiologo ed ex deputato regionale di Forza Italia. Imparentato con il boss di Prizzi Tommaso Cannella e camice bianco al servizio degli uomini delle cosche palermitane. «Favoriva i soggetti di Cosa nostra in contesti di malattia», dice Brusca. Un cognome, quello di Mercadante, che indirettamente rimanda all’ex direttore del quotidiano La Sicilia e uno dei suoi affari più noti: quello del centro commerciale Porte di Catania. Investimento in cui Ciancio è stato socio con Tommaso Mercadante, figlio di Giovanni e nipote del boss Cannella.