Mafia, come il clan Aparo terrorizzava Solarino e Floridia Usura su bimbo malato e lamentele per carne di cavallo

Erano capaci di lamentarsi davanti a un conto di venti euro al pub o di fronte alla bilancia del macellaio che pesava qualche fettina di carne di cavallo, per poi chiedere tassi usurai anche del 240 per cento. Massimo e Giuseppe Calafiore, i due principali indagati nell’inchiesta San Paolo che ieri ha portato in carcere oltre venti persone tra Solarino e Floridia, credevano che tutto gli fosse concesso. Un potere spesso sfoggiato in maniera quasi grottesca, come nel caso degli innumerevoli incendi commissionati incuranti del rischio di potere attirare le attenzioni delle forze dell’ordine, e che poggiava sulla designazione ricevuta dal primo da parte del boss Antonio Aparo. Nelle quasi trecento pagine di ordinanza siglate dal gip Carlo Cannella vengono raccolti decine di episodi che vedono protagonisti i Calafiore. A volte in coppia, altre no. Per gli inquirenti i due sarebbero stati al vertice di un giro di usura che avrebbe attirato sia imprenditori che soggetti privati le cui condizioni economiche non erano delle migliori.

Tra le vittime dei Calafiore finiscono così il titolare di una ditta specializzata in opere edili e nella vendita di mezzi meccanici. L’uomo ottiene un prestito di 20mila euro che, nel giro di un anno, si trasforma in 27mila. Dalle intercettazioni in mano ai magistrati si capisce come le richieste di pagamento delle rate mensili fossero pressanti. «Ho preso l’impegno che ci doveva vedere qua. Me la puoi fare una ricarica, ovunque sei, anche con la Postepay?», chiede Massimo Calafiore all’imprenditore. Per chi naviga in acque burrascose rientrare dai prestiti è difficilissimo e così finisce che gli esponenti del clan Aparo sottraggono – quasi a titolo di pegno – tre mezzi: una Bmw X5, una Fiat Multipla e un’Audi Q5. «Tutti li voglio ora, non mi trattare più d’amico perché non sono amico vostro», dice un giorno Mario Liotta al figlio della vittima che cercava di guadagnare tempo. Liotta, oggi defunto, all’epoca dei fatti era ritenuto braccio operativo dei Calafiore.

L’appartenenza del gruppo alla criminalità organizzata è il principale motivo, secondo gli inquirenti, de silenzio dietro cui si sono trincerate le vittime anche di fronte alle evidenze investigative. In un caso, addirittura, un veterinario – già vittima di usura – chiede l’aiuto di Massimo Calafiore per recuperare una somma che gli sarebbe stata tolta con l’inganno da un soggetto di Avola che lo aveva convinto a dargli il denaro necessario per pagare le rate del prestito con la promessa che, grazie a un’amica impiegata alle poste, sarebbe riuscita a garantire un risparmio. A quel punto il veterinario chiede a Calafiore di costringere il presunto truffatore a restituirgli il denaro; fatto questo che ha portato l’esponente degli Aparo a essere accusato di tentata estorsione. 

Fare gli usurai era un’attività particolarmente remunerativa, ma potenzialmente anche rischiosa. I Calafiore, d’altronde, avevano diversificato il proprio business controllando anche lo spaccio di sostanze stupefacenti. In un’occasione, contando i soldi ricavati dalla vendita della droga, Giuseppe commenta: «Ora possiamo iniziare a vendere macchine invece che soldi». Ma si tratta di una battuta, perché a fare gli usurai i due non rinunciano. E così finisce che il 5 aprile 2018, a casa di Giuseppe Calafiore i carabinieri trovano un calendario con annotati le vittime, somme da pagare e date dei previsti incassi. Scorrendo i giorni, i militari trovano nomi anagrafici ma anche riferimenti più vaghi: ci sono, per esempio, ricuttedda, pane, dentista, sorelle. In un caso a ricevere le pressioni è un uomo che aveva chiesto il prestito per pagare le cure sanitarie a un bambino malato. «Ho un problema con mio figlio e ti sto dicendo cosa devo fare, siccome devo spendere dei soldi mi sto facendo in quattro, compare. Tu ti devi ricordare che te ne ho dati cinquemila, con i tremila che ti do ora», sbotta la vittima.

La pazienza, però, non è la principale dote dei Calafiore che, in più di una circostanza, avrebbe affidato ai propri sottoposti roghi in giro per Floridia e Solarino. Per gli inquirenti, Giuseppe Calafiore sarebbe stato il mandante di un incendio ai danni di un pub, deciso in seguito a un trattamento che non sarebbe stato all’altezza da parte dei titolari. Compreso non essere riusciti a recuperare ostriche e champagne. Massimo Calafiore, invece, dopo avere avvicinato una donna con l’intento – è la ricostruzione che fanno i magistrati – di mettere le mani nelle sue attività, sfoga la propria frustrazione ordinanzo l’incendio dei veicoli di lei, di una sua amica, del marito e del compagno. Contro quest’ultimo, un agente della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Cavadonna, Calafiore si sarebbe accanito ordinando e ottenendo l’avvelenamento dei suoi tre cani.  


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