Il pentito di Altofonte racconta aneddoti e vicende che porterebbero all'editore etneo, il cui nome viene spesso storpiato in Ciaccio. Durante l'udienza anche un passaggio inedito legato a un presunto interessamento per l'appalto del bar all'aeroporto Fontanarossa
Mafia, al processo Ciancio parla l’ex boss Di Carlo «Santapaola disse: “Come Ciancimino a Palermo”»
«Mi chiamo Francesco Di Carlo, sono nato ad Altofonte nel 1941 e ho fatto parte di Cosa nostra dal 1961. Sono entrato come soldato semplice fino a diventare capo famiglia del mio paese». Ex uomo d’onore, 77 anni, messo alle porte della mafia siciliana nel 1982, arrestato a Londra nel 1985. È tornato in Italia, scegliendo di diventare un pentito, soltanto dopo avere scontato quasi 12 anni di carcere per l’accusa di traffico di droga con il Canada e la famiglia dei Cuntrera-Caruana. È lui il protagonista dell’ultima udienza del processo a Mario Ciancio Sanfilippo, editore e direttore de La Sicilia accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Con il suo marcato accento palermitano, Di Carlo ripercorre i decenni passati di Cosa nostra. Quelli in cui a dettare la linea erano criminali del calibro di Totò Riina e Michele Greco. Di cui il pentito è stato interlocutore fidato per decenni.
«Ho iniziato a collaborare il 13 giugno 1996», racconta Di Carlo al pubblico ministero Antonino Fanara. «Ho conosciuto Catania nel 1970 quando Luciano Liggio è stato latitante da quelle parti. Conoscevo Pippo Calderone e lo zio di Nitto Santapaola Salvatore Ferrara oltre a Calogero Conti di Ramacca». Prima di arrivare a Ciancio l’accusa si sofferma sulla mafia alle pendici dell’Etna. Com’era la Cosa nostra conosciuta da Di Carlo, l’uomo che si autodefinisce vicino alla politica mafiosa corleonese? «Catania ha sempre avuto una mentalità differente rispetto a Palermo. C’era una delinquenza enorme ma non si voleva capire che quando si entrava in Cosa nostra bisognava rispettare determinate gerarchie. Ci sono stati un sacco di morti e sono nati un sacco di problemi. C’era il mandamento di Catania, Ramacca e Caltagirone con Ciccio La Rocca. Poi c’erano famiglie a Siracusa e Lentini».
Uomo ponte con i servizi segreti e custode di tanti segreti legati alle stragi di mafia, Di Carlo passa in rassegna la figura del boss etneo Giuseppe Calderone: «Quando si cominciarono a fare le province era stato nominato anche capo regione. Lui era un vero ruffiano e si era avvicinato a Caltanissetta. Poi venne sostituito da Gaetano Badalamenti». Presto iniziano i problemi, il ricambio dei vertici e l’ascesa della belva Nitto Santapaola. «Si fece una mini riunione provinciale al bivio di Manganaro, tra Palermo e Agrigento. Si decise di portare in giudizio il comportamento di Calderone. Le cose erano gravi e si doveva riunire tutta la commissione regionale». Mesi dopo tutti si trovano attorno a un tavolo «con le armi che vengono lasciate fuori». Un faccia a faccia a cui sono presenti i capi mafia siciliani che viene mascherato come «un incontro tra i soci di una cooperativa agricola». «Calderone restò capo provincia e Nitto suo vice ma quattro giorni dopo Riina mi disse che Calderone doveva essere tolto di mezzo». Il boss viene assassinato l’8 settembre 1978.
«Le hanno mai presentato imprenditori di Catania?», chiede Fanara a Di Carlo. «Ho conosciuto Pasquale Costanzo (fratello di Carmelo, ndr) negli uffici di Misterbianco, quando prese potere Nitto. Mi diceva che c’era anche un imprenditore che abbracciava tutto, un Ciancimino di Palermo: si chiamava Ciaccio o Ciancio, aveva proprietà di giornali e tante società». Di Carlo svela anche un aneddoto avvenuto in provincia di Trapani, quando Santapaola, insieme a Rosario Romeo e Francesco Mangion, si spostò dall’altro della Sicilia «per andare a trovare un corleonese di ferro come il boss Mariano Agate». «Vennero fermati durante un posto di blocco perché accusati dell’omicidio del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari. Poi sono stati rilasciati e Nitto Santapaola mi disse che si era adoperato un capitano, Speranza, amico suo, che aveva ricevuto in regalo una macchina. Era intervenuto anche questo Ciaccio, che si era dato da fare con i carabinieri ed erano stati prosciolti».
Il nome dell’editore de La Sicilia, sempre storpiato con l’appellativo di Ciaccio, viene affiancato anche a una vicenda che avrebbe riguardato un appalto per il bar all’aeroporto Fontanarossa. «Ancora c’era Calderone che parlò con questo Ciancio. Un imprenditore, Giacalone, che aveva un bar a Palermo presentò l’offerta e vinse. Era cugino dei mafiosi del mandamento di San Lorenzo». Un fatto del tutto nuovo che il pentito non aveva mai riferito ai magistrati: «Sono cose antiche», chiosa l’ex boss originario di Altofonte. Intanto, nella giornata di ieri, Ciancio è stato confermato nei quadri della Federazione italiana editori giornali per il biennio 2018-2020. Il figlio Domenico, condirettore del quotidiano etneo, avrà invece un ruolo come consigliere nel settore Problemi economici.