Luperini, a Catania l’interprete della modernità «Il mercato? Vende libri come fossero scarpe»

Docente di Letteratura italiana all’università di Siena, campione della critica letteraria militante di stampo marxista, interprete della modernità letteraria, adesso anche scrittore – com’è solito definirsi – «avventizio», Romano Luperini è un sopravvissuto nato. Dopo il suo esordio come studioso di Giovanni Verga nel ’68, la Storia (o meglio, la sua presunta fine) lo ha costretto quasi subito a trincerarsi nei panni del partigiano di un mondo dissolto. Stretti i denti, ha sofferto sulla pelle tutta la causticità di un’era dominata dall’aggressione (così lui l’ha vissuta) al potere conoscitivo della letteratura. E da ultimo la malattia, la coscienza dei limiti del corpo, la sofferenza per il male che gli impedisce di deglutire, che affatica ogni sua parola, il fantasma del padre e la sfiducia nel ruolo educativo della critica. Sfiducia che l’ha portato a ritornare in trincea, stavolta nei panni dello scrittore, con romanzi quali L’uso della vita, La rancura, e il recente L’ultima sillaba del verso. A Catania per un convegno sulla fortuna e la ricezione dell’opera verghiana all’estero, Romano Luperini parla – dalla prospettiva ampia dell’intellettuale che rifugge le angustie dello specialismo settoriale – dello stato della letteratura e riesce a dare un’organizzazione razionale al caos del mondo, dei fatti, delle parole. Perfino a quel caos indicibile incarnato dalla paura ultima dell’uomo, «ultima sillaba del verso» dove le parole sembrano mancare.

Professore, negli ultimi anni, dai suoi interventi traspare un barlume di ottimismo. C’è stato il ritorno della letteratura alla realtà che lei tanto auspicava?
«Sì, c’è stato. Non sono ottimista, ma non si può non registrare un cambiamento in positivo, quello che chiamano ritorno alla realtà. Ritorno dovuto a situazioni oggettive, come la crisi economica, il terrorismo, la guerra».

Cos’è la realtà di cui parla? Realtà sociale?
«No, non solo… Reale è tutto ciò che accade nel mondo. Un accadimento di grande importanza in questo millennio è senza dubbio l’immigrazione».

Parliamo allora di quando la letteratura si era allontanata dalla realtà. Lei bolla tutta la stagione del postmodernismo come una sorta di deriva mistica?
«Deriva mistica non mi sembra adatto. Tuttavia si è creduto per un ventennio che il linguaggio sostituisse la realtà, che si avesse a che fare solo con le parole e non con i fatti. Ma quando una bomba ti cade sulla testa, non esistono parole. La tesi di Nietzsche per cui non esisterebbero fatti, ma solo interpretazioni, è stata smentita dopo l’11 settembre, perché una bomba è un fatto».

Ma le parole hanno il potere di interpretare i fatti?
«Senza dubbio, ma i fatti esistono a prescindere dalle parole che li interpretano».

Per quanto riguarda il fatto letterario e le parole che lo interpretano: il canone. Esiste ancora? Ce n’è il bisogno in letteratura?
«Il canone serve a dare un ordine. Come le costellazioni ci permettono di orientarci sotto il cielo stellato, a sapere quali stelle sono più luminose e quali meno. È un’organizzazione di ciò che esiste».

Perché allora sembra così difficile canonizzare il Novecento?
«Ma non lo è. Il Novecento è passato ed è ormai in larga parte canonizzato. Quello difficile da canonizzare è il presente, perché ci siamo dentro».

Eppure nell’Ottocento De Sanctis lo canonizzava, il presente.
«Questo è vero. Però si trattava di un mondo diverso: la produzione letteraria era più selezionata. Le opere circolavano all’interno di una società letteraria composta da un centinaio di persone capaci di riconoscere il valore di un’opera. Oggi non esiste più nulla di simile. Da quarant’anni a questa parte esiste solo il mercato».

E in questo senso il mercato non dovrebbe essere più democratico?
«
(Sorride) Mi diverte questa domanda. Il mercato non è né democratico né antidemocratico. Il mercato è mercato. Ha come unico scopo il profitto, mira a vendere libri come fossero scarpe. Ancora quarant’anni fa alla direzione di Einaudi c’erano Vittorini, Pavese, Fortini, Calvino. Al loro posto, oggi, ci sono persone che fino a dieci anni fa vendevano scarpe. La stessa incompetenza impera nei premi letterari, come lo Strega».

Ci parli un po’ dello scenario internazionale.
«La letteratura si difende bene dov’è radicata la cultura. Soprattutto perciò nei paesi angloamericani, in particolare negli USA, dove c’è una produzione narrativa molto importante, sicuramente molto più che in Italia».

Forse perché in fondo la vocazione dell’Italia non è narrativa, ma lirica?
«È vero, l’Italia ha una tradizione lirica molto alta, ma il mercato la ignora, perché la poesia non vende. Oggi tutti scrivono poesia, ma nessuno ne legge. Fortunatamente è proprio perché il mercato ignora la poesia che la poesia si salva. Viene letta in totale da mille persone, forse meno».

E questo salverebbe la poesia?
«Sì, nella misura in cui non la piega alle ottiche miopi delle case editrici».

Parliamo della sua scrittura, invece. È molto vicina a una tecnica d’analisi.
«La scrittura letteraria è indubbiamente influenzata dall’inconscio. La poesia, con la sua logica simmetrica, ancor più che la narrativa, che invece ha una logica asimmetrica. Ad ogni modo, sì, la scrittura letteraria interpreta anche i fatti dell’inconscio».

E il fatto per eccellenza è la morte?
«Dipende. Dipende dalle situazioni storiche… Sotto altre condizioni possono esserci fatti ben più importanti… ma sotto queste, oggi, forse sì, forse è la morte la cosa più importante. Perché questo mondo non ci fa vivere grandi speranze, grandi passioni, grandi esperienze. Ognuno è relegato alla propria esistenza individuale».

Mi perdoni un’indiscrezione, professore. Cosa prova pensando alla morte?
«Cosa provo io pensando alla morte? Guarda, per me il problema non è la morte. È la mancanza totale di autonomia nella condizione di gravissima malattia che ho sperimentato, e che precede la morte. Di quello ho paura. Della morte no».


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