L’università non è niente di speciale

Nella vita di ogni studente universitario ci sono dei passaggi obbligati dai quali non si può prescindere. Ci sono gli esami rimandati, le bocciature, le file chilometriche in segreteria, le pennichelle durante le lezioni noiose, gli orari di ricevimento e i professori che si presentano con ore di ritardo, lo zucchero del cornetto alla crema ancora sulle labbra e l’impellente necessità di una pausa caffè.

Dopo i primi sei mesi del primo anno, ogni malfunzionamento appare normale, ogni distrazione giustificabile, ogni congiuntivo sbagliato dall’ordinario di turno smette di scandalizzare.

Ma durante i primi sei mesi è tutta un’altra storia. Durante i primi sei mesi si è matricole, e questo basta a spiegare tante cose.

Ci fu un tempo in cui matricola lo era anche chi vi scrive: un passato ben documentato, a dirla tutta, che oggi appare ingenuo.

A poco più di un mese dall’iscrizione al primo anno di facoltà come Lettere e Lingue, c’è tutto un mondo di orari da incastrare, di perlustrazioni anticipate del territorio, di sorrisi felici non appena varcate le soglie dell’ex Monastero dei Benedettini, di posteggiatori-abusivi dai quali fuggire e scivoloni in cortile da evitare. C’è la ressa, perché le aule sono piccole e gli iscritti troppi; c’è la confusione, perché le fotocopie si trovano in copisteria ma non devi dire il titolo del libro o chi l’ha scritto, ma il nome del professore che l’ha messo in programma; c’è l’imbarazzo, perché “a chi lo chiedo cos’è l’A.S.M.?”, astrusa sigla che indica nient’altro che l’Aula Magna, intitolata a Santo Mazzarino; c’è la curiosità di scoprire cos’è, in fondo, l’Università.

Le matricole capiranno in fretta che non importa quali materie hai dato, ma quante. Sì, perché i crediti inseguono a mo’ di “memento mori”, e non passare il primo anno appare come un dramma. Sono ignare, le matricole, del fatto che perdere uno o più anni viene definito fisiologico, inevitabile e, quasi, necessario. Immaginano pagine e pagine di conoscenze nuove, e non sanno che daranno almeno cinque materie esattamente identiche con nomi totalmente diversi, non hanno idea del fatto che gran parte dei docenti scriva i testi da studiare, né possono prevedere che non potranno esimersi dal conoscere pure le virgole di quei libri, per una firma in più su un libretto altrimenti intonso.

Le matricole frequenteranno inutili seminari, perché saranno crediti a scelta ottenuti con il minimo sforzo, e seguiranno tutte le lezioni che possono, rammaricandosi di non possedere il dono dell’ubiquità per seguire anche quelle che non possono. Non avranno idea di cosa siano i laboratori, previsti da taluni piani di studio, né troveranno qualcuno che sia in grado di spiegarglielo: “adesso sono inutili, lo capirai a tempo debito”, si sentiranno dire, accetteranno e passeranno oltre.

Ai Benedettini, prenderanno pessimi caffé al bar prima di scoprire le sorelle Zanussi, distributrici automatiche, ciascuna con le sue peculiarità: quella a destra è per la quantità, quella a sinistra è per la qualità, l’esperienza lo insegna.

Prima che se ne rendano conto, le matricole si lasceranno trascinare nel mezzo della foga del prevedibilissimo autunno caldo di proteste, e ci crederanno anche, in quello che grideranno contro la Gelmini e Berlusconi, fomentati dai megafomani. Poi sarà gennaio, ci saranno i primi appelli, il gioco delle prenotazioni dell’ultimo minuto, così si sarà alla fine della lista, gli assistenti (perché certi professori agli esami non si presentano neanche) non potranno esaminare tutti in una sola data, e si guadagneranno un paio di utili giorni di ripasso, fino all’esame. Il primo di una lunga serie, forse quello più emozionante.

Quello dopo il quale non saranno più matricole e l’avranno capito cos’è l’università: sotto troppi aspetti, nulla di speciale.


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