Lungo le strade del futuro

Si potrebbe cominciare parlando dei nostri politici, di come affrontano – e interpretano a modo loro – la cosiddetta “emergenza immigrazione”.

Oppure dal “sentire comune”, dalla percezione che quest’Italia xenofoba ha nei riguardi di chi viene da lontano o ha un colore della pelle diverso (ed è innegabile che, quasi sempre, politica e opinione pubblica vanno a braccetto).

O si potrebbe cominciare, infine, dai dati. Poche volte considerati, ogni tanto travisati e, spesso, ignorati.

Eppure proprio i dati meriterebbero particolare attenzione, dal momento che «su di essi non si può fare demagogia», così come sottolinea il prof. Pioletti introducendo la conferenza che si è tenuta giorno 17 dicembre, presso la sede iblea della Facoltà di Lingue e Letterature straniere, in occasione della presentazione del Dossier Caritas/Migrantes 2008.

Con il XVIII rapporto sull’immigrazione non si intende solo fornire un’analisi ragionata di numeri e percentuali, ma – e lo si può ben intuire dall’eloquente slogan Lungo le strade del futuro – si vuole, soprattutto, portare avanti una riflessione che conduca all’abbattimento delle barriere noi/gli altri e alla concreta realizzazione, dunque, di definitive condizioni di integrazione e convivenza, «in un quadro certo di diritti e doveri».

«Non deve esserci più noi e loro – sintetizza il prof. Abdelkarim Hannachi – ma una comunità nuova, multietnica, fatta di Italiani e futuri Italiani», laddove l’espressione futuri Italiani sostituisce felicemente  la parola stranieri, troppo spesso intesa come sinonimo di diversità e, va da sé, inferiorità. Del resto, non esistono frontiere naturali, reali, invalicabili: gran parte dei confini sono stati tracciati a matita dal colonialismo, dettati da logiche piuttosto intuibili, producendo una realtà frammentata, ma in principio unica. In un contesto del genere, un’identità definita (e, a maggior ragione, la difesa di essa a discapito del confronto e del dialogo) non può che equivalere a una drammatica morte culturale.

Al contrario, dall’incontro tra identità diverse, aperte a capirsi e compenetrarsi,  può sortire senz’altro un arricchimento sociale. Ed è proprio in questo senso che deve – o dovrebbe – lavorare una corretta politica d’integrazione. Mentre in Gran Bretagna, tuttavia, si impone il modello comunitarista ed in Francia quello assimilazionista, l’Italia – fa ancora notare il prof. Hannachi – è dilaniata tra una «sinistra maldestra», che promette tanto e conclude poco, e una «destra sinistra», artefice della famigerata legge Bossi-Fini  e del più recente (e discutibile) pacchetto-sicurezza.

Sarebbe tempo, invece, di occuparsi del «pacchetto-integrazione», sostiene Maria Paola Nanni, curatrice della redazione nazionale del Dossier: a differenza degli altri Paesi europei, in Italia viene stanziata dal Ministero dell’Interno una cifra alquanto irrisoria – solo 50 milioni di euro – da destinare a progetti di inserimento (ovvero, dati alla mano, circa 10 euro ad immigrato). Ciò è quanto è sopravvissuto dai tagli che hanno portato a un dimezzamento, rispetto agli anni precedenti, dei fondi sulle risorse per l’integrazione (mentre sono state aumentate vertiginosamente le spese per la gestione dei tanto discussi centri di identificazione ed espulsione, precedentemente denominati CPT).

Una somma ridicola insomma, a cui si aggiungono i 136,7 milioni di euro spesi dai Comuni per interventi diretti di assistenza e, infine, quei servizi rivolti alla generalità della popolazione, di cui anche gli immigrati sono beneficiari. Dunque, nel complesso, si parla di circa – e non oltre – un miliardo di euro. 

Cifre tutt’altro che generose, soprattutto se confrontate con altre stime, di cui quei politici di bassa lega (e non solo) fanno fatica a parlare, facendo pendant con il quasi totale silenzio dei mezzi d’informazione.

Già, perché analizzando i dati riportati dal Dossier, si potrebbero fare delle scoperte interessanti: che gli immigrati pagano le tasse, ad esempio. E che hanno un’incidenza sul Pil di ben il 9%, con una stima del gettito fiscale annuo corrispondente a quasi 4 miliardi di euro.

Insomma, conclude Maria Paola Nanni, «gli immigrati sono più creatori di ricchezza che assistiti». E non solo perché fortemente attivi nel campo del lavoro (superando, con un tasso d’attività del 73,2 %, di ben dodici punti gli Italiani), ma soprattutto perché portatori di un altro tipo di ricchezza, quella culturale, che si traduce facilmente in una risorsa fondamentale per creare e intensificare i contatti commerciali e diplomatici con i loro Paesi di origine.

A ciò vanno aggiunte le statistiche relative alle caratteristiche della presenza immigratoria in Italia, che rivelano come i flussi riguardino perlopiù giovani (l’80% dei migranti ha meno di 40 anni) e famiglie, ciascuna comprendente, in genere, almeno due/tre figli. Per cui, il tasso di fecondità delle donne straniere, unito alle stime appena citate, mostra chiaramente l’apporto positivo dei movimenti migratori, contribuendo sostanzialmente a un ricambio generazionale che la popolazione italiana, da sola, non è in grado di garantire.

Si potrebbe portare, quindi, l’esempio di Roxana Cristea, imprenditrice romena, sposata con due figli – uno dei quali è nato in Sicilia –, intervenuta per raccontare la sua esperienza: della sua attività d’insegnante in Romania, del trasferimento in Italia con la famiglia e dei modi in cui si è data da fare per vivere dignitosamente a Ragusa: donna delle pulizie, interprete per le istituzioni – con compenso semestrale – e, finalmente, titolare di una piccola impresa d’autolavaggio.

Ancora, il Dossier rileva una crescente simbiosi con gli Italiani, testimoniata dal galoppante aumento di matrimoni misti (un’unione su dieci) e di acquisizioni di cittadinanza: a 38.466 si attesta il numero dei nuovi cittadini italiani. Un valore alto rispetto agli anni passati, ma ancora basso, molto basso, rispetto ad altri Paesi europei, dove si conta – a fronte delle 100 italiane – una media di 2.000 acquisizioni al giorno.

«È diffusa l’idea che la cittadinanza si trasmetta per sangue – sostiene Maria Paola Nanni – idea totalmente inadatta oggi, dato l’assetto strutturale e le proporzioni del fenomeno migratorio».

Le fa eco Vincenzo La Monica, responsabile della redazione regionale del Dossier, illustrando la situazione ragusana (che conta in provincia 4,5 persone con cittadinanza straniera ogni 100 residenti): «ben 2.000 dei nostri immigrati sono nati qui e quindi, nei fatti, per nulla interessati al fenomeno migratorio, ma italiani in tutto e per tutto. Tranne che per la legge: un bambino nato in Italia da genitori stranieri, infatti, non acquista la cittadinanza del Paese in cui è nato, ma mantiene solo quella dei genitori». Al compimento del diciottesimo anno d’età, perciò, rischia di lasciare il Paese in cui è cresciuto e di cui conosce cultura e tradizioni, per essere spedito in un altro di cui non sa nulla e a cui probabilmente non sente di appartenere.

In un quadro del genere, anche «l’idea delle classi ponte appare piuttosto opinabile, in quanto pare rispondere più ad esigenze di carattere ideologico – mediatico che a quelle, ben più importanti, di affrontare una realtà così evidente». Insomma: occorrerebbe puntare su uno sviluppo paritario già a partire dall’età dell’infanzia, e non giocare in una pericolosa – e anacronistica – ottica separazionista.

Ma non è solo di numeri che si deve parlare. «Tutta la storia dell’umanità è storia d’immigrazione: qui in Sicilia ci vantiamo dei templi, degli anfiteatri. Ma dietro di essi vi è anche la fatica umana», ricorda Vincenzo Consolo, che ha inquadrato il fenomeno in una prospettiva storico-letteraria, citando – tra gli altri – Pietro Colletta e Mario Scalesi, l’”Italiano di Tunisia”.

Perché, a rischio di sembrare banali,  non va dimenticato che anche gli Italiani hanno un lungo passato di emigrazioni alle spalle. E, come fa notare La Monica, «non siamo stati sempre bene accolti» (basti pensare alle tristi vicende di Aigues-Mortes e Milwaukee, alle leggi restrittive nei confronti dei meridionali negli USA, agli atteggiamenti discriminatori subìti durante la II Guerra mondiale in Canada e Gran Bretagna e alle vignette anti-italiane pubblicate ovunque nel mondo).

E non di solo passato si deve parlare, tutt’altro: oggi l’Italia conta più di 3,7 milioni di cittadini italiani all’estero e oltre 60 milioni di oriundi.

I motivi della fuga all’estero (e la Sicilia, con i suoi 630.000 emigrati, si conquista il primato nazionale) non sono molto diversi da quelli di chi cerca fortuna qui. Ma, in più, i nostri immigrati – metà dei quali provenienti dai territori più poveri dell’Europa e per ¼ dall’Africa – scappano spesso da conflitti che producono, quotidianamente, migliaia di morti e cercano riparo in un Paese che, per Costituzione e in quanto aderente alla Convenzione di Ginevra, riconosce il diritto all’asilo politico. Eppure il viaggio della speranza si rivela, molte volte, il viaggio della morte. Dunque, spiega La Monica, la domanda è: «come si fa ad evitare che delle persone muoiano – 3.128 le vittime dal 1994 ad oggi – per esercitare un diritto che viene loro riconosciuto?»

E a questo punto sorge un altro quesito: tutto ciò a Bossi e agli altri dotti, medici e sapienti, chi glielo dice?       


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