Luigi Lo Cascio si misura con l’Otello di Shakespeare

REGISTA, AUTORE E INTERPRETE DI UNA VERSIONE ORIGINALE DI UN’OPERA FAMOSA. AL BIONDO DI PALERMO

di Ivan Scinardo

È un fazzoletto bianco con 14 o forse 15 rose ricamate, la prova dell’infedeltà che scatena quasi due ore di performance teatrale, senza interruzioni e con una chiusura di sipario che porta gli spettatori ad alzarsi in piedi e tributare i giusti onori ad un talento palermitano, Luigi Lo Cascio, regista, autore e interprete, nella sua originalissima versione dell’Otello di Shakespeare.

 

Lo spettacolo coprodotto dal Teatro stabile di Catania e da Emilia Romagna Teatro Fondazione, in scena al Biondo di Palermo, fino a domani, domenica 23 marzo, ha le scene i costumi e le animazioni di Nicola Console e Alice Mangano, le musiche di Andrea Rocca e le luci di Pasquale Mari.

Si va indietro di 410 anni. Cassio viene promosso luogotenente del Generale Otello al posto di Jago, relegato al ruolo di attendente. L’artista palermitano si cuce addosso i panni di Jago, si incontra e si scontra, con quello straordinario talento siculo che è Vincenzo Pirrotta. Jago è la coscienza grigia che fa di Otello un eroe puro che non può e non deve accettare il tradimento. E così come uno scorpione, inocula lentamente nel sangue di Otello il veleno che scatena la follia e che lo porta ad uccidere la sua tanto amata Desdemona stringendole le mani al collo e poi suicidandosi con lo stesso pugnale che le aveva donato assieme al fazzoletto bianco.

Un uxoricidio o, per dirla in tempi moderni, “femminicidio”, frutto di una incontrollabile gelosia e possessività. Jago tormenta Otello e a volte gode nel vederlo impazzire; assapora la vendetta nella mistificazione e nella costruzione di una storia totalmente inventata, il tradimento di Desdemona, con quel fazzoletto che finisce nelle mani di Cassio, il suo presunto amante e che scatena l’ira e la follia cieca di Otello.

Vite che si annullano su un sepolcro, un telo bianco su pedane ligneee, unici elementi di una scenografia minimalista con uno schermo che si accende e si spegne, proiettando sempre immagini in bianco e nero a volte sporche, a volte nitide, con grandi schizzi che ricordano le macchie di Rorschach.

Sulla scena soltanto 4 personaggi con una grande potenza espressiva. In tre parlano il dialetto siciliano, tranne Desdemona, interpretata da Valentina Cenni; lei sembra quasi una figura leopardiana, candida, sincera, ma sottomessa al marito fino a cristallizzarsi e accettare la morte.

Il “cuntu” di Lo Cascio assomiglia quasi ad una un ricordo esoterico ancestrale, come a volere ricordare le poesie del “bagarioto” Ignazio Buttitta .

“Lo Cascio spiega, nelle note di regia, questa titanica impresa di lavorare su un testo senza fare torto alla straordinaria opera del Bardo, ricavandone un soggetto fedele il più possibile agli spunti narrativi e ai rimandi alla fonte, ma intraprendente, sempre scontando i limiti delle forze a disposizione, nella ricerca di una via, foss’anche un vicolo, da aggiungere alla mappa sterminata che raccoglie le varianti, le trasposizioni, i calchi di questa tragedia candidamente misteriosa.

Il plot si presenta modificato già nella sequenza temporale. Come spiega l’autore: si comincia dalla fine del testo di Shakespeare. La tragedia di Otello è già compiuta. Pirrotta, l’Otello è sanguigno, mastodontico, il suo è probabilmente il ruolo più difficile da interpretare. In un frammento di attimo interpreta ogni forma e colore di emozione umana: amore, rabbia, pianto, follia.

Il soldato narratore è Giovanni Calcagno. Straordinaria la sua interpretazione; una carriera d’attore strepitosa, dalla tv al cinema, al teatro. La sua figura è possente; lui è alto 1 metro e 95 centimetri, catalizza l’attenzione del pubblico durante la sua affabulazione.

Lo scorso anno ha vestito i panni di Fra Diego La Matina nella libera interpretazione del romanzo di Leonardo Sciascia “Morte dell’inquisitore”, regalando un cammeo agli allievi documentaristi della scuola di cinema di Palermo per un saggio di diploma. La sua figura sulla scena è inventata, è quella di un soldato che si inserisce nei dialoghi con la narrazione, usando spesso la parola “vinditta”. Un soldato che ha assistito agli avvenimenti e che cerca di riportare alla ragione il grande condottiero.

Nel finale l’omaggio all’Orlando Furioso dell’Ariosto con l’ippogrifo che vola sulla luna a cercare tutti gli oggetti smarriti sulla terra. Sui visi di Calcagno e Pirrotta si riflette un cielo stellato. Nel canto IV l’Ariosto descrive l’ippogrifo cavalcato da Astolfo fino alla Luna per recuperare il senno perduto di Orlando e nella trasposizione scenica dell’Otello il sapiente regista Luigi Lo Cascio fa la stessa cosa, quasi a volere rimarcare un terreno onirico con i due soldati che si perdono sulla luna, perché non possono più tornare sulla terra, la creatura alata a metà tra un cavallo e un grifone e la testa d’aquila ha le ali spezzate.

 

 


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