Lattore reso famoso da I Cento passi presenta il suo spettacolo La caccia, in scena allo Stabile. Ai microfoni Radio Zammù, Lo Cascio racconta la sua idea del mestiere: un mestiere lontano dal gossip, in cui crescere significa perdere la presunzione
Luigi Lo Cascio e la fatica del teatro
Per la rassegna “Echi del novecento” dello Stabile di Catania, va in scena fino al 1 Marzo al Teatro Ambasciatori, “La caccia”, spettacolo interpretato, scritto e diretto da Luigi Lo Cascio, liberamente ispirato alle Baccanti di Euripide.
In occasione della sua permanenza nella città etnea, l’attore protagonista de I cento passi ha partecipato lo scorso giovedì all’evento inaugurale del ciclo di incontri sul teatro Doppia Scena, organizzati dallo Stabile in collaborazione con la facoltà di Lettere, che si è tenuto lo scorso giovedì nell’auditorium Giancarlo De Carlo del Monastero dei Benedettini.
Subito dopo l’incontro, il giovane attore siciliano si è concesso ai microfoni di Radio Zammù per un’intervista.
Luigi, “La caccia” è uno spettacolo classico, ma moderno e molto attuale per certi aspetti. Dobbiamo proprio farti i complimenti…
«Grazie. Intanto mi dispiace se mi sentite un po’ stanco ma sono veramente entusiasta di stare qui e di parlare con voi. La Caccia è uno spettacolo che stanca moltissimo e io non riesco a risparmiarmi. Solitamente in questo periodo faccio una vita “ascetica” perché tutta la mia eventuale forza è riservata al momento in cui salirò sul palcoscenico. Mi sembra una forma di onestà anche nei confronti dello spettatore. A parte il fatto ovviamente che il testo l’ho scritto io e mi fa piacere che venga conosciuto nella sua forma migliore anche attraverso il mio modo di stare in scena. Mi sembra assurdo che la mia vita privata possa incidere poi sul momento fondamentale, sulla messa in scena. Non esistono più feste, cene, non esiste più fare tardi…».
Anche se ormai il mondo del gossip, nazionale e internazionale, fa credere che voi attori, al di là dello schermo o quando si cala il sipario, abbiate tutta un’altra vita, fatta soprattutto di “bagordi”…
«Non vorrei adesso costruire una sorta di “altarino dell’asceta” o del missionario, ma per quanto mi riguarda è proprio una questione fisica. Però è vero che quest’immagine rappresentata poi dal gossip ha più a che fare forse con l’ambiente televisivo. Per quello che conosco sia del cinema che del teatro, almeno in Italia, è tutto molto ridotto».
Pensi quindi che da queste parti ci sia una maggiore sensibilità artistica? In sostanza, possiamo dire di essere ancora un po’ indietro ma “che ben venga”?
«Credo che questo sia un mestiere dove la passione è fondamentale, dove, come diceva Morandi, “uno su 1000 ce la fa”. Non si può pensare di riuscire a farcela se l’unico motore a spingerti è la chimera del successo. Prima dei 32 anni, anno in cui ho girato “I cento i passi”, facevo già teatro e in tutti quegli anni ciò che mi permetteva di poter “sopravvivere” nei mesi in cui non lavoravo o dovevo fare qualche spettacolo che non mi piaceva, solo per guadagnare qualcosa, era il fatto che il lavoro mi piaceva e niente mi avrebbe fatto cambiare idea».
La compenetrazione è importante in questo tuo mestiere più che mai; la concentrazione ovviamente è fondamentale. Il teatro è il momento della verità, il momento dove la sensibilità artistica si esprime al massimo perché non ci sono telecamere, non si taglia, non si ritorna indietro. Si è dal vivo col pubblico davanti.
«E’ vero, ma è anche vero che certe forme di assenza si possono verificare anche durante gli spettacoli teatrali. Certe volte, se lo spettatore non collabora, non è attento, non è partecipe, può capitare che l’attore si chiuda in se stesso, si faccia il suo teatrino addosso, oppure che non veda l’ora di tornare in camerino».
Parliamo dei tuoi studi d’arte drammatica. Tu hai frequentato l’accademia Silvio D’Amico di Roma. Hai qualche ricordo di quegli anni? I compagni, le esperienze vissute…
«E’ stato un periodo fondamentale. Successivamente ho ritrovato molti amici e compagni di corso, ad esempio ne “La meglio gioventù”. Alessio Boni e Fabrizio Gifoni erano proprio miei compagni di classe. Abbiamo avuto un grande maestro che è stato Orazio Costa. Con lui abbiamo lavorato sul metodo mimico. Il ricordo più bello? Quando mi accorsi di essermi messo in sintonia con quello che vuol dire frequentare una scuola, e cioè il momento in cui si perde la presunzione. E’ strano ma nel mestiere di attore si è più presuntuosi all’inizio che dopo. Invece lo stare in accademia a contatto con altri ragazzi con cui confrontarti ti fa da specchio per la tua piccolezza e ti fa capire che sei ancora in uno stadio elementare».
Oltre allo spettacolo c’è anche un libro, un volume che parla di teatro. In Auditorium si è discusso sul fatto che il teatro è solo visivo e non può essere scritto. Che ne pensi?
«Io non sono del tutto d’accordo. Non credo che il problema sia vedere con gli occhi. Proprio la visione, il considerare il teatro come qualcosa che si guarda e che quindi in qualche modo si controlla è il preludio della morte del teatro. Bisogna ritornare all’importanza dell’ascolto musicale, melodico, del suono, della voce dell’attore, che teoricamente crea un rapimento al di là del significato letterale di quello che sta dicendo».
Parlando del film che ti ha reso famoso, una curiosità sulla sua lavorazione: ci sono state scene faticose, snervanti o addirittura più “pallose” che hai dovuto girare durante le riprese de I cento passi?
«I cento passi è stata per me un’esperienza che non ha avuto a che fare con noia, “pallosità” o fatica. Ho avuto per fortuna l’intuizione di mettermi sempre in relazione con il fatto di non stare interpretando un personaggio di invenzione ma una persona reale (Peppino Impastato, n.d.r.) e questo mi ha fatto dimenticare che stavo girando un film».
Probabilmente tu non solo hai interpretato un personaggio, ma hai interpretato i sentimenti di un popolo, quello siciliano, che si ritrova perfettamente nel tuo personaggio.
«Al di là del suo spirito civico, del suo senso di legalità, delle lotte che ha fatto, il film ha cercato i raccontare la sua lotta, raccontarne il modo vivace. C’erano scene divertenti, il teatrino di strada, le scene della radio…».
Radio Aut appunto. A proposito, visto che siamo in ambito radiofonico ci fa onore parlare di Radio Aut.
«Non mi capita molto spesso di andare ospite in radio, ma questo clima somiglia molto a quello di Radio Aut e somiglia molto anche ai miei inizi. Prima di fare l’accademia studiavo medicina e tra le poche esperienze che avevo fatto c’era la radio. Facevo una trasmissione di due ore. Durante la prima ora mandavo jazz e blues, mentre nella seconda mandavo dischi che avevano a che fare con la comicità e ogni tanto recitavo qualche poesia».
Per chiudere, un tuo personale invito ai giovani per andare a vedere il vero cinema italiano, quello di classe e di qualità.
«In generale io credo che non bisogna avere delle forme di pregiudizio per le cose che sembrano in un certo senso “pesanti”. C’è questo malinteso che fa credere che da una parte c’è la vita e il divertimento e dall’altra c’è la pesantezza delle parole, dei testi letterari e del teatro. Io credo che andare al teatro a sentire e vedere queste opere sia un momento in cui si possono percepire emozioni e forme di entusiasmo diverse, ma che non negano le altre cose che facciamo per divertirci».
[Intervista realizzata durante la puntata di Lunchbox del 26/02/2009, da Mario Finocchiaro e Elio Sofia]