Luci e ombre della vita nelle carceri siciliane. Bernardini: «Uno Stato fuorilegge non può essere autorevole»

«Il sistema delle carceri serve solo a se stesso». Insomma, un giro autorefernziale che non conduce alla finalità della rieducazione. E’ il prof. Salvatore Aleo, ordinario di diritto Penale all’Università di Catania, a sintetizzare le storture insite nel circuito. Affermazione ribadita durante l’incontro “Mai dire mai. Il diritto alla speranza nelle pene” organizzato dall’associazione Nessuno tocchi Caino, della galassia del partito Radicale, dalla Camera Penale etnea Serafino Famà all’istituto per Ciechi Ardizzone Gioeni. E a confermare la sterilità della macchina detentiva sono anche i numeri citati a più riprese da Rita Bernardini, presente al tavolo dei relatori. «Quest’anno – ha detto – e ancora manca più di un mese al 31 dicembre, si sono già verificati ottanta suicidi. Nel 2009 erano stati settantadue. Quasi tutti hanno deciso di togliersi la vita impiccandosi. Ricordo la giovane ragazza a Messina che in carcere si è uccisa». Ma a confermare questa lettura, interviene anche un altro dato. «Su cinquantaseimila – prosegue – detenuti, solo cinquemila si trovano dietro le sbarre per la prima volta». Quindi, la carcerazione “specializza” la delinquenza. Di fatto il risultato dimostra come «il carcere – continua – non porta ad essere migliori ma peggiori». Dunque l’esatto opposto rispetto a quanto previsto.

«La nostra – ha dichiarato l’avv. Francesco Antille, presidente della Camera Penale di Catania – Costituzione prevede espressamente che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e risocializzarlo. Questo fa parte di quella considerazione della umanità della pena per distinguerla dalla disumanità e dalla tortura. La pena non è una rappresaglia. La pena è un momento riconciliativo, o così dovrebbe essere, tra l’autore del delitto con il diritto e la società». Concezione assai distante da chi vede solo la punizione o l’aspetto risarcitorio ma che soprattutto dovrebbe essere associata con la valutazione degli altri fattori che incidono. A cominciare dai disagi legati alla tossicodipendenza e alle povertà. Elementi fortemente insiti nella provenienza da zone disagiate, dalla mancanza di opportunità socio-economiche. Tutti aspetti che dall’ambiente esterno vengono amplificati nella vita interna, ad una struttura, e che si riflettono sul futuro della persona, dopo avere scontato la pena.

«I tassi di recidiva – ha affermato il prof. Salvatore Aleo – tra chi ha affrontato la pena detentiva sono superiori rispetto a chi è stato ammesso all’esecuzione penale esterna. Quando sono state modificate radicalmente le norme sul processo minorile, marginalizzando il carcere, molti dicevano che si sarebbe aperta la strada ai baby killer; e invece non è successo. Quando hanno chiuso i manicomi, c’è chi pensava che le persone sarebbero state squartate in strada ma non è accaduto. Stessa cosa con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Ci sono una minoranza di detenuti che sono socialmente pericolosi; per la maggioranza il discorso va affrontato in maniera più sofisticata. Occorre evitare lo schifo, la vergogna, la disumanità e il disprezzo dei simili» che portano ad effetti devastanti evidenziati dall’etichettatura sociale. Un superamento necessario così come ricordato nel libro “La pena di morte nel mondo. Verso la fine dello Stato-Caino” a cura di Antonio Coniglio e Sabrina Renna.


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