Se con Il Pianista il regista simmerse coraggiosamente in acque difficili di anni difficili, con "Oliver Twist" non frena il suo tuffo nei ricordi- La recensione di Simona Finocchiaro
Lorfanello di Dickens secondo Roman Polanski
Quelle ripescate da Roman Polanski sono le celebri vicissitudini dell’orfanello Oliver Twist uscite nel 1837 dalla penna di Charles Dickens.
Un testo che ha fatto storia per l’eccezionale incontro tra le atmosfere infelici, lo smarrimento impaurito del giovane protagonista e le finissime descrizioni “realiste” della tentacolare Londra ottocentesca.
Il regista ridisegna in sequenze cinematografiche la parabola sfortunata del piccolo Twist nel suo vagabondaggio di strada tra furfanti, “sbirraglia” ignorante, fame e speranze; divertendosi parecchio a presentarci tanti piccoli quadri di città e a caricaturare di bieca perfidia i personaggi strambi che popolano le banchine, i mercati e i focolai delle zone più scure della capitale. I giudici ottusi, le assurde maniere delle case lavoro, la meschinità del vecchio farabutto Fagin (capo di una combriccola di piccoli ladruncoli), e quel fiume di cemento, fango e fumi che è la Londra povera, così, sono dipinti con spirito di paradosso, belle colorazioni e con la capacità di sorprendere, ricalcate direttamente dal libro originale. Ma anche lo sguardo tenero e impaurito di Oliver pare rimanere fedele alle righe di Dickens.
Il tutto fortunatamente coadiuvato dalla fotografia decisiva di Pawel Edelman (“Ray”) e dalla splendida scenografia urbana di Allan Starki (“Il Pianista”, “Schindler’s list”).
Se con “Il Pianista” Polanski s’immerse coraggiosamente in acque difficili di anni difficili, con Oliver Twist non frena il suo tuffo nei ricordi, ma, al contrario compie l’ennesima spinta nel tentativo di esorcizzarli.
L’orfanello di Dickens nel suo massacrante vagare e nelle sue peripezie tra i marciapiedi e vicoli della capitale inglese è un efficace specchio della vita tormentata del regista franco-polacco.
La fuga, la morte della madre, la tristezza inconsolabile ed un finale a lieto fine sembrano magicamente accomunare il cineasta al piccolo Twist in un connubio, c’è da scommetterci, a lungo pensato da Polanski.
Un capitolo a parte va riservato alla notevole interpretazione di due attori: il piccolo Barney Clark (Oliver Twist) alla sua primissima in un lungometraggio, e il superbo Ben Kingsley (qui trasformato dai costumi nel ripugnante Fagin) che a tratti strappa lo scettro di protagonista al giovane Twist.
Un film sul cammino e sulla sofferenza come semi poetici della speranza.