“L’ombrellone” esce in inverno

A volte i sogni si realizzano, e a volte il talento riesce ad emergere e a trovare un suo spazio. Questo è ciò che ci conferma l’esperienza di un collega, Alessandro Puglia, ventiduenne “figlio” della facoltà di Lettere e Filosofia. Dopo anni contrassegnati da una spiccata verve poetica, Alessandro, cavalcando le onde di una carriera invidiabile (studente di “Editoria, media e giornalismo” all’Università di Urbino, direttore del “Centro poesia contemporanea” di Catania e collaboratore di riviste letterarie quali Pelagos e Stilos) porta alle stampe il frutto del suo impegno letterario.

Nella raccolta di poesie “L’ombrellone”, edita da Manni, il giovanissimo autore sfodera il coraggio di scommettersi, con versi freschi, pregni dell’emozione della semplicità e dell’amore in tutte le sue forme, fino a sfiorare a tratti le tinte dell’eros. Nell’introduzione curata da Umberto Piersanti così si descrive: “Tenerezza e leggerezza, ricordo e passione, colori e pensieri formano un caleidoscopio equilibrato ed armonico”. 

Da quanto tempo coltivi questa passione?
Non è una passione. È piuttosto una vocazione che nasce da un dettato interiore, il “dettato d’amore” di cui parlava Dante. E il poeta in genere traduce quest’umore. Prendere un foglio di carta e una penna difatti non è sufficiente per essere uno scrittore. E i poeti non sono in realtà tanti come si crede spesso negli ambienti studenteschi. Un poeta nasce ogni tanto. Non posso fare a meno di ricordare le urla di dolore di Moravia al funerale di Pasolini: “è morto un poeta”. Io scrivo poesie da quando ho avvertito un mutamento interiore, un modo di guardare gli oggetti, le situazioni, l’universo. E questo mi ha accompagnato sin da ragazzino, ai tempi del liceo quando si scrivevano parole d’amore sui banchi.

È nata a quei tempi la tua vocazione poetica?
Sì. Ricordo proprio che al liceo i miei compagni di classe volevano sempre sbirciare quello che scrivevo, durante le ore di matematica, disciplina di cui ammiro tuttora l’impianto filosofico, ma che non è mai riuscita ad invadermi così come il rito della parola. Perché la parola è anche un rituale, un gesto solenne. Oggi invece essa viene bistrattata tra gli sperimentalismi senza fantasie e la volgarità del nostro tempo.

Come vivi il tuo ruolo di giovane poeta nel contesto sociale moderno?
Il poeta è un diverso. Una persona culturalmente valida oggi è un diverso. Specialmente nelle nuove generazioni quasi ci si deve giustificare delle proprie credenze. E per me la poesia è un atto di fede, così come l’intera letteratura, il cinema, il teatro, l’arte. Però il poeta non vuole mai emarginarsi e offre sempre la parola al mondo: come diceva Hölderlin “la poesia da spezzare con il pane e con il vino”. Perché il poeta non ha una cultura specialistica, gancio questo con il mondo moderno. Il poeta è chi vive le cose, chi viene “impastato di vita”.  L’aveva detto Carlo Bo parlando di Poesia e Vita, un binomio questo indissolubile, un sodalizio unitario, un’utopia concreta. Non si tratta di ruoli. Il poeta è come un albatro, diceva Baudelarie: le grossi ali da gigante gli impediscono di camminare. Quindi scappa dalle cose per tornare ad esse.

Come nasce questa  tua raccolta di poesie?
Una raccolta di poesie prende forma nel momento in cui, come scriveva il Montale “critico”, si verifica dentro il poeta un’accumulazione interiore. L’ombrellone nasce da questo depositarsi di esperienze, umori e dolori, distacchi violenti e dolci attese, un viaggio vissuto nella sua pienezza che una volta terminato lascia dietro sé solitudine e desolazione. Sola e desolata è d’altronde la spiaggia della mia memoria, solo e al centro di quella spiaggia l’ombrellone dai pendagli inumiditi che il tempo ha portato via. Dunque la calda stagione che finisce, quella stessa dell’adolescenza: l’estate ripensata dall’inverno senza quei lungomari pieni di gente o quelle sdraio appollaiate tra loro. Il viaggio con un grande amico, un compagno, un fratello che il Tempo ha portato via. La voglia di ricongiungersi ad uno spazio di universo raccontando quei sentimenti che animano i nostri tragitti.

Qual è la tua preferita?
Per me sono un po’ tutte preferite. Ma se devo sceglierne una dalla raccolta, vi leggerei questa, che ho scritto a una donna che ho molto amato:

Incontro                                                                               

Neppure mi sembrava vero:
essere lì quella sera
tra sogni capovolti:

Seduti
sui discorsi,
tuoi, miei.

Soffiava un vento autunnale
quella sera ad Acicastello,
i vicoli sgombri dall’estate,

le strade liberate dalle schiume…
Ti chiedevo se avevi paura
e tu rispondevi
di avere me.

Quali sono le tue influenze? A chi ti ispiri?
Sento vicini i poeti della tradizione. Umberto Saba nella sua dimensione della lingua, Montale nel mondo: di lui avverto quei frantumi sospesi sulle spiaggia, quegli scarti, quei residui di una civiltà non più possibile. David Maria Turoldo in questa idea di poesia bianca dove si sposa tutto il chiarore delle parole. Ma amo molto anche poeti contemporanei che purtroppo poco si conoscono, Umberto Piersanti per quella sua dimensione magica della natura, per la sua evocazione di un tempo oramai remoto; Milo De Angelis per la sua capacità di raccontare il distacco, Franco Loi tra i dialettali. Li leggo, li vivo, li conosco. Ma la vicenda di un poeta è univoca, non ha epigoni.

Un poeta del passato che avresti voluto conoscere di persona. Senz’altro Pasolini. Non solo perché era un poeta. Anzi considero Montale superiore a tutti, ma perché in Pasolini c’era quella disperata vitalità dei grandi artisti. Quel modo diretto di affrontare e raccontare le cose intrise sempre di una forte dimensione letteraria. Il Pasolini corsaro che difende la civiltà arcaica e contadina oramai scomparsa, che si schiera sempre e non solo con le idee. L’intellettuale vivo che combatte il suo tempo, con tutti i suoi mezzi: la poesia, la saggistica, la narrativa, il teatro, il cinema.

Benedetta Motta

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