Nomi, definizioni, etichette, soprannomi: quando la supposta identità di un soggetto e la sua immagine sociale cozzano, scoppia la guerra. E una guerra dei nomi è proprio al centro della pièce inaugurale della stagione 2016/2017 del Teatro Mobile di Catania, neonata realtà artistica ospite del teatro Abc di via Pietro Mascagni. Titolo melodrammatico a parte, Lo Sterminio è una commedia. Atto unico, unica azione, che si dipana tra salaci battute e personaggi caricaturali attorno al fulcro di un focolare domestico.
Una cena a casa di Sergio (uno scoppiettante Vincenzo Volo), buffonesco sindaco di San Giovanni la Punta, rosso di capelli e di partito, si trasforma in farsa quando suo cognato Lorenzo (Francesco Foti), vanesio docente universitario dal baffetto brizzolato, annuncia di voler chiamare Adolf il figlio che sta per avere da un’ex studentessa. Da qui parte l’opposizione a oltranza di Sergio, appena stemperata dall’amico dei due Carletto, attore fallito e ambiguo scapolo vestito di lillà (Nick Nicolosi). Inconcepibile per Sergio, borghese veteromarxista, battezzare un bimbo col nome del responsabile dell’atroce sterminio dell’Olocausto. Ma Lorenzo, forte del suo relativismo, della sua cinica accettazione delle convenzioni sociali, abbatte pezzo dopo pezzo la maschera che Sergio si è costruito per fingersi controcorrente, svelando un personaggetto tirchio, corrotto e inconsistente. Vengono a scontrarsi due diversi egoismi, e due diversi modi di vivere l’impossibilità di sfuggire alle maglie della società per conquistare una forma autentica di esistenza. È l’annoso scontro tra apocalittici e integrati.
A interrompere a sprazzi la contesa sono le incursioni in scena di Giò Giò, moglie di Sergio e sorella di Lorenzo, che in uno svolazzare di gonne e in vorticare di lamentele sfreccia dentro e fuori dalla cucina promettendo agli invitati pietanze sempre più improbabili. Giovanna è impersonata da Francesca Ferro, la vera signora di questa commedia: lei l’ha scritta, lei è la direttrice artistica del Teatro Mobile. Ed evidentemente nel personaggio deve aver riversato nevrosi e frustrazioni che non le sono sconosciute. Il suo monologo finale è imbastito come la tragica confessione di una Mirandolina mancata. Ma per porre fine alla guerra dei nomi, è necessario l’intervento della giovane moglie di Lorenzo, Katherine (Ilenia Maccarrone). Imprenditrice di successo, donna decisa, fumatrice incallita anche in stato interessante, sarà lei a sciogliere l’equivoco: il bambino prenderà il nome del nonno, Folco. E sarà sempre Katherine a condurre la storia alla conclusione, rivelando lo scioccante segreto che Carletto aveva nascosto ai suoi amici per 12 anni.
Allo spettatore è regalata un’ora e mezza di comicità smagliante, che si poggia più sui personaggi che sulla trama. Da una caratterizzazione psicologica ricca di sfaccettature nascono dialoghi divertenti, brutali nel mettere a nudo la miseria e l’umanità dei personaggi, i cui rapporti si intrecciano in maniera plausibile e organica. Particolarmente riuscita è la macchietta di Sergio: perfetta incarnazione del più buffo Volksgeist (spirito del popolo) catanese, non può non suscitare simpatia con le sue smorfie e il suo accento pastoso, risulta il personaggio più vivo e più vero dello spettacolo. Fortemente radicato nel suo contesto cittadino, senza mai scadere nel provinciale, Lo Sterminio pecca però forse di conservatorismo, artistico si intende. E il programmatico «Vogliamo mettervi in crisi» rivendicato nel claim della nuova stagione teatrale non sembra trovare pieno compimento. Almeno per il momento.
Per quanto fresca nel suo svolgimento, la commedia presenta un impianto già visto. Il «sempreverde argomento della maschera pirandelliana» di cui parla il regista Francesco Maria Attardi non è più tanto verde, a un secolo di distanza. Un elemento di innovazione, elaborato da Attardi, dovrebbe essere l’uso del video: dei cortometraggi proiettati sullo sfondo che permettono l’invasione sulla scena di una dimensione narrativa pienamente diegetica. Tuttavia, esauritasi nella vivace presentazione dei personaggi, la novità evapora in fretta, e si torna alle classiche dinamiche di un dramma borghese in cui la componente seria e tragica è forse fuori tono rispetto alla riuscitissima comicità.
Lo stesso espediente dell’equivoco, la guerra dei nomi, non è sfruttato fino in fondo, non sfocia nell’assurdo che con la sua evidenza scenica dovrebbe rendere palese nella viva carne degli attori il «sempreverde argomento» che viene invece lasciato alla voce fuoricampo. La trama, l’equivoco, è un ottimo pretesto per presentare gli spassosi – non per questo frivoli – dialoghi, in cui le voci dei cinque protagonisti si alternano in un ritmo travolgente, tanto da far dimenticare al pubblico il ritardo di un’ora causato da un inghippo con gli abbonamenti al botteghino. «Abbiamo tanto entusiasmo, ma poca esperienza. Perdonateci, non capiterà più!», promette dal palco Francesca Ferro alla fine dello spettacolo. E il pubblico l’ha perdonata. Con uno scrosciante applauso.
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