«Dobbiamo aiutarci sempre tra noi gentiluomini». Da una parte un imprenditore del settore ristorazione, nel mirino di controlli da parte delle forze dell’ordine, dall’altro un carabiniere. Entrambi importanti l’uno per l’altro: il primo disposto a pagare per ottenere cortesie che il secondo si sarebbe volentieri prestato a elargire, con l’unico intento di garantirsi provvigioni extra e illecite. Nelle 122 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere il maresciallo Gianfranco Antonuccio, lo schema è replicato innumerevoli volte. Cinquantaseienne di Licata, insignito dall’Arma per il proprio valore militare appena pochi mesi prima che gli uomini del Ros iniziassero a indagare su di lui, Antonuccio è accusato di essere stato solito chiedere denaro – con un’insistenza tale da avere portato gli interlocutori a pensare di dover gettare il telefono – a soggetti che in qualche modo si trovavano a che fare con la giustizia. Per indagini sul proprio conto, come nel caso del ristoratore a cui il maresciallo avrebbe garantito tranquillità – «devi stare sempre a posto e sereno che, fin quando ci sono vivo io, tu guai non ne vedi» -, o per ottenere corsie preferenziali per il proprio figlio, condannato a 17 anni per avere ucciso la fidanzata. È questo il caso di Filippa Condello, tra gli arrestati dell’operazione condotta dai militari lunedì mattina.
«Lo so quello che fa», risponde Condello al 67enne Luigi Bracco, indagato ma non destinatario di misura cautelare. Bracco, riferendosi al maresciallo Antonuccio, aveva affermato che «in tutti i paesi questo è presente» e poi per essere ancora più esplicito «becca tutto il giorno». Stando alla ricostruzione compiuta dai magistrati della procura di Palermo, il maresciallo avrebbe da una parte cercato di mascherare le proprie attività illecite utilizzando un linguaggio criptico, per cui i soldi diventavano «fogli» da ricevere, dall’altra non si sarebbe fatto problemi a fare pervenire le richieste anche dall’interno degli uffici della Compagnia di Licata, dove Antonuccio, che ieri ha scelto di non rispondere alle domande rivoltegli nel corso dell’interrogatorio di garanzia, è arrivato dopo l’esperienza alla guida della stazione di Naro. Ed è proprio da questa sequenza geografica – prima Naro, poi Licata – che sono iniziati i problemi per il 56enne.
È infatti partendo dal curriculum di Antonuccio che gli inquirenti individuano in lui l’esponente delle foze dell’ordine a cui si sarebbe rivolta Angela Porcello, l’avvocata compagna dell’uomo d’onore di Cosa nostra agrigentina Giancarlo Buggea e con lui arrestata nel blitz Xydi, su mafia e massoneria. «Mi sono andata a firriare con uno di Licata che per giunta, prima era a Naro e ora è a Licata, è amico, perché io a Naro gli ho fatto un piacere, e quindi, me lo potevo permettere di domandarglielo», è l’intercettazione da cui si è partiti per arrivare ad Antonuccio. A confermare il collegamento, peraltro, è stata la stessa Porcello. La donna, dal momento in cui è stata arrestata, con l’accusa di avere diretto insieme ad altri mafiosi il mandamento di Canicattì, ha iniziato a rispondere alle domande degli inquirenti anche se sul grado di veridicità delle sue dichiarazioni ancora oggi esistono dei dubbi. Tuttavia è proprio Porcello a instillare il dubbio che Antonuccio sia stato implicato anche in rapporti più equivoci: «In una occasione era sceso dall’autovettura di servizio e aveva chiesto a Buggea 1500 euro in mia presenza», ha messo a verbale la donna a maggio dell’anno scorso. Il riferimento è a uno dei controlli effettuati dal maresciallo nei confronti dell’esponente mafioso. Era il 2013 e Buggea si trovava sottoposto alla misura della sorveglianza speciale. Stando alle parole della donna, Buggea avrebbe consentito a quello che sarebbe dovuto essere un prestito preventivando al contempo di non chiedere mai la restituzione del denaro, nella consapevolezza che quello sarebbe potuto essere un modo per rinsaldare ancora di più i rapporti con il carabiniere.
La gip del tribunale di Palermo ha definito quello di Antonuccio un «mercimonio delle funzioni». La stessa giudice si è poi definita non competente sulla territorialità dell’indagine, disponendo l’invio degli atti ad Agrigento. Il motivo sta nel fatto che tra le contestazioni all’origine della richiesta della misura cautelare non ci sono fatti inerenti le attività della Direzione distrettuale antimafia. Ciò però non significa che le accuse su Antonuccio si limitino alla sorta di questua illecita portata avanti con i soggetti coinvolti nell’indagine. Sul militare, infatti, si addensano sospetti ben più pesanti: sui presunti rapporti con la criminalità organizzata dall’ordinanza, nella parte in cui viene richiamata la richiesta di misura cautelare, si evince che le «indagini sono ancora in corso al fine di ricercare eventuali riscontri a dette dichiarazioni», mentre «sono emersi ulteriori elementi su Antonuccio nel corso di altra attività investigativa su un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, operante nella provincia di Agrigento».
Per la procura, Antonuccio avrebbe anche accettato soldi falsi da parte di chi lo pagava. In una circostanza, l’uomo chiede a Condello se il «foglietto» da lui ricevuto la sera precedente fosse «originale» o meno. In un’altra, invece, il sospetto è che una banconota falsa da cento euro sia stata consegnata dal maresciallo a un corriere al momento della consegna di un bene a domicilio. Lo stesso successivamente, ma non nell’immediato, si sarebbe accorto dell’accaduto e sarebbe tornato sul posto per far presente il fatto. Davanti a lui si sarebbe presentato il figlio di Antonuccio. «Gli ho fatto un discorso che non mi ha saputo dire più niente – dice l’uomo al padre -. Gli ho detto: “Guarda, queste cose vengono contestate nell’immediatezza dei fatti, io ora come faccio a dire che questi sono i soldi che ti ha dato mio padre?». Ascoltato il racconto, il maresciallo dal canto suo avrebbe valutato controazioni: «Sennò li denuncio per calunnia, subito subito».
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