Nel quartiere gli echi della morte di Francesco D'Arrigo e del ferimento di un minorenne - due dei quattro ragazzi della tentata rapina in Tangenziale - non si sono spenti. «Se usare delle pistole finte porta alla morte, a 18 anni, mi aspetto un periodo davvero difficile», afferma un giovane del viale Moncada. Umori simili a quelli dei familiari al villaggio Zia Lisa. Mentre al commissariato di Librino si va dall'allarme al «no comment»
Librino, gli umori dopo la tentata rapina Una zia: «Era meglio avere una pistola vera»
Una rapina con una pistola finta «significa che sapevano quello che facevano: se li avessero presi, avrebbero evitato un’accusa di rapina a mano armata». Ad affermarlo, commentando il tentativo di furto finito in tragedia in un distributore della tangenziale di Catania è Giorgio, 25 anni, tutti passati in viale Moncada, il luogo di provenienza di due dei quattro ragazzi coinvolti. «Conosco quel ragazzino che ora è in ospedale: ha solo 14 anni, ma per noi del quartiere era ormai “uno grande”. Lo so sulla mia esperienza – prosegue Giorgio -: finire a spacciare da ragazzini o a fare una rapina non è così difficile. Come procurarsi una pistola vera», spiega. E conclude la sua riflessione con una domanda: «Se passa il messaggio che usare delle pistole finte porta alla morte, a 18 anni? Mi aspetto un periodo davvero difficile».
Francesco D’Arrigo, poco più che 18 anni, quel martedì notte di fine gennaio è rimasto ucciso dai colpi di un agente di polizia. Abitava al villaggio Zia Lisa, ad alcuni chilometri dal viale Moncada. Si tratta di un complesso di case popolari incastonato tra l’omonima via adiacente al cimitero e il grande quartiere di Librino, di cui è quasi una periferia estrema. Nella zona tutti conoscono la casa di D’Arrigo, in una delle basse palazzine che compongono il monotono panorama. Davanti al portone d’ingresso c’è sempre un ragazzo di guardia, ma basta chiedergli dei familiari di Francesco per farsi accompagnare in casa. Eppure sarebbe bastato seguire le grida e i pianti. La porta dell’appartamento è sempre aperta, «in attesa del funerale, ancora non sappiamo quando restituiranno il corpo», spiega il ragazzo.
«Lei è un giornalista? Venga qui le dico io cosa scrivere», esordisce la madre di Francesco D’Arrigo, Maria, poco più che trentenne. «Voglio dire a tutti che la giustizia non esiste. Che diritto si ha di levare un figlio a una mamma, non era malvivente era un ragazzo educato, timido, buono. Quello che ha ucciso mio figlio deve riuscire a capire questo dolore. Purtroppo si deve perdere un figlio per capire cosa si prova». Parole di rabbia, replicate nell’affollatissimo appartamento da parenti e vicini di casa. «Forse era meglio che si portavano una pistola vera, così vedevamo come finiva. Ma forse non avevano le palle per farlo, erano solo ragazzini», si lascia andare un’anziana zia del ragazzo. Prova a fermare il suo accesso d’ira uno dei giovani amici e vicini di casa. «Francesco era un ragazzo di quartiere, educato, lavoratore. Si è lasciato coinvolgere da persone che non conoscevamo. Se l’avessimo saputo, non sarebbe mai nemmeno andato. In suo ricordo vorrei solo dire che campione era e campione è rimasto».
Fuori dall’affollata stanza la discussione con i giovani si fa più seria e di carattere più generale. «Qui lo Stato c’è solo per punire. Non è una frase fatta: io sono stato in carcere quattro volte, la prima a 18 anni mi hanno dato tre anni per spaccio, avevo con me nove palline (involucri con dentro droga, ndr)», spiega il giovane, poco più che venticinquenne. E sulla morte di Francesco, una zia non ha dubbi: «È uno scandalo che delle indagini se ne occupi sempre la polizia. Lo hanno ucciso loro». «Gli hanno sparato alla schiena, di spalle, e poi il proiettile è entrato nella gamba. Non si può sparare di spalle, o ad altezza del viso, come con quel ragazzino», conclude uno degli amici presenti, affiancato dalla zia di Francesco. Si rifererisce al minorenne ancora ricoverato al Policlinico per un proiettile alla testa.
«La situazione è difficile e la conosciamo. Ma provi a parlarne con il dirigente, lui le saprà dire di più, io non posso», spiega un giovane agente di piantone al commissariato di Librino, in viale San Teodoro, il giorno dopo. La tensione e la rabbia nel quartiere, oltre che nelle frasi di chi conosce i ragazzi coinvolti, secondo il sindacato di polizia Coisp sarebbe presente in tantissimi messaggi pubblicati su Facebook. «Chiediamo pubblicamente al questore Marcello Cardona di potenziare i presidi di legalità nelle zone maggiormente a rischio, specialmente Librino, e ciò alla luce dei noti tristi fatti e dei sentimenti di vendetta urlati, proprio in questi giorni, da taluni soggetti nei confronti della polizia di Stato», spiegano in un comunicato il segretario provinciale Alessandro Berretta e il delegato sindacale di Librino Orazio Poma. Dell’argomento però nessuno di coloro che ogni giorno lavorano al commissariato vuole parlare, compreso il dirigente Giacomo Palma. «Non è un argomento su cui posso dire qualcosa: non sono autorizzato. Bisogna chiedere all’ufficio stampa della Questura».
Nessuna risposta nemmeno per quanto riguarda una delle voci più insistenti nel quartiere, a proposito di atteggiamenti di intralcio al lavoro delle forze dell’ordine, con barricate, transenne e auto posteggiate in modo tale da impedire l’accesso alle volanti della polizia in alcune zone, come appunto il villaggio Zia Lisa, zona d’origine anche del ragazzo 17enne fuggitivo, arrestato il 3 febbraio, una settimana dopo la rapina. «Nessun commento, non insista», conclude il commissario Palma.