Le libertà dei Laudani nel Comune di Acireale «Mi sono pure fatto la carta d’identità da solo»

Uffici comunali self service dove spadroneggiare, senza far mancare però la galanteria nei confronti del gentil sesso. Nei racconti di Giuseppe Laudani – il primo e finora unico pentito dell’omonimo clan mafioso – un capitolo a parte meritano le vicende legate ad Acireale. Laudani, 33 anni, è il principale collaboratore di giustizia attorno al quale si è sviluppata l’inchiesta I vicerèChe ha portato all’arresto di 109 persone, diverse delle quali attive all’ombra della città dei cento campanili. La storia criminale di Laudani – nominato reggente della famiglia ancora minorenne dal patriarca e nonno Sebastiano -, a metà anni Duemila, si svolge per buona parte ad Acireale. Qui, infatti, il 13 agosto 2004 trasferisce la propria residenza da Chiaramonte Gulfi (Rg), località nella quale era stato sottoposto agli arresti domiciliari. Ad Acireale il giovane boss, allora 22enne, va a vivere insieme alla madre in un appartamento di corso Italia a poca distanza dal PalaVolcan.

La decisione di spostarsi nell’Acese è figlia della volontà di rimettere ordine a quella che lo stesso Laudani, in un interrogatorio del 2010, definisce «una situazione scombinata». L’obiettivo è riaffermare l’autorevolezza della famiglia nelle zone dove i gruppi locali avevano goduto di troppa autonomia. «Si doveva ricreare il prestigio – racconta Laudani ai magistrati – o per timore, o per amore o per qualsiasi cosa». Per farlo, decide di incontrare uno dopo l’altro i responsabili locali a partire da Sebastiano Granata. Ritenuto solo responsabile «figurativo» del clan, poiché a tenerne le redini in realtà sarebbe stato Giuseppe Fichera. «[Granata] dava di conto di tutto a Pippo Fichera – dichiara il collaboratore – il fratello di Camillo, ché Camillo tramite il fratello, anche se è in regime di 41 (bis, ndr), guida sempre la famiglia».

La presenza di Laudani in città, tuttavia, non viene accolta bene. La pretesa di portare sotto il suo controllo gli affari acesi culmina, tra il 2006 e il 2007, nel proposito del gruppo locale di ucciderlo insieme al fratello di sangue Alberto Caruso. I due sono accusati di non rappresentare più il clan e, soprattutto, di intromettersi nei business di Fichera e soci: «[Laudani] si era reso responsabile di una serie di fatti di sopraffazione e di alcune estorsioni a parenti di nostri affiliati», dichiara il pentito Giuseppe Di Giacomo, al quale il gruppo capeggiato da Fichera si rivolge per chiedere il benestare per gli omicidi. Il progetto, tuttavia, viene messo da parte anche a causa del mancato assenso di Di Giacomo, che stava già valutando la possibilità di pentirsi.

I rapporti tra Laudani e gli acesi, in ogni caso, vedono anche esperienze di collaborazione. Nelle quali il vincolo criminale ha la meglio sulla differenza di vedute. Una unione che si manifesta nel rapporto con le istituzioni. Per esempio, con gli uffici comunali dove, a detta del collaboratore di giustizia, il gruppo aveva libero accesso: «Là dentro facevamo tutto quello che volevamo – racconta Laudani ai magistrati -. Quando sono andato a farmi la carta di identità per la sorveglianza speciale, me la sono battuta io». Le porte del Comune acese, al cui interno Giuseppe Fichera avrebbe avuto diversi contatti, si aprivano senza problemi: «Ci siamo andati insieme, siamo passati al di là del banco – ribadisce Laudani – abbiamo preso le carte di identità e ce le siamo battute». A disposizione dei mafiosi, tuttavia, non sarebbe stato solo l’ufficio Anagrafe: «Ci siamo messi a girare per gli uffici perché lui conosceva tutti là dentro», aggiunge il collaboratore facendo riferimento a Fichera.

Di tale libertà beneficia, in un caso, anche una ragazza che si trovava in attesa del proprio turno, e verso la quale Laudani pensa di sfoggiare un particolare gesto di gentilezza: «C’era una ragazza che aveva dei problemi, che era in coda, che stava aspettando – ricorda – e allora abbiamo preso questa ragazza, l’ho conosciuta, l’ho fatta girare là dentro e le abbiamo fatto noi i documenti».

Sulla portata delle rivelazioni di Laudani, l’attuale sindaco di Acireale Roberto Barbagallo – non in carica all’epoca dei fatti – preferisce non rilasciare dichiarazioni: «Il sindaco afferma di sconoscere del tutto tali vicende – fa sapere l’ufficio stampa – e si riserva di approfondire la questione nel caso arrivassero segnalazioni da parte della procura». Contattato telefonicamente, anche il primo cittadino dell’epoca, Nino Garozzo, preferisce non commentare. Proprio in questi giorni, gli uffici acesi sono arrivati al centro dell’attenzione generale, con l’inchiesta Ghostbuster che vede 62 indagati tra i dipendenti comunali. Per gli impiegati – tre dei quali agli arresti domiciliari, mentre per 12 è stato posto l’obbligo di firma – l’accusa è di aver simulato la presenza sul posto di lavoro.


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Nell'inchiesta che ha portato a 109 arresti tra i mussi di ficudinia, un capitolo a parte meritano gli affari del clan nella città dei cento campanili e la presunta vicinanza con le istituzioni. Una convivenza difficile tra il reggente Giuseppe Laudani e il gruppo malavitoso locale, culminato in una possibile faida interna

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