Un saggio sui rapporti tra cristiani e musulmani nell'epoca normanna fa luce sulle radici linguistiche di molti termini che utilizziamo quotidianamente. Tra cui cabbasisa, parola che si è diffusa grazie ad Andrea Camilleri e al suo commissario Montalbano, che rimanda ad habb aziz
Le influenze della lingua araba nel dialetto siciliano «Molte nel commercio, assenti nella vita affettiva»
Un panino ca giuggiulena. È quasi impossibile per un siciliano non aver mai pronunciato questa frase. I semi di sesamo (per chi vive oltre lo Stretto) nel dialetto fanno ancora riecheggiare la radice araba. Un esempio non certo isolato, perché ogni idioma, nazionale o regionale, è anche una composizione di prestiti, trasformazioni linguistiche, evoluzioni lessicali, retaggi e tradizioni.
La Sicilia, anche per la sua posizione geografica, è stata storicamente terra di conquiste. Greci, latini, arabi, normanni, angioini e spagnoli, che nel corso dei secoli hanno occupato l’Isola, hanno diffuso parole, espressioni e costrutti che, ancora oggi, fanno parte del nostro patrimonio dialettale. Uno studio statistico, fatto su circa cinquemila parole siciliane, indica che oltre il 50 per cento di esse deriva dal latino, il 15 per cento dal greco e solo il 6 per cento dall’arabo e dal francese.
Un libro di recente pubblicazione, Cristiani e musulmani nella Sicilia normanna (Edizioni di storia e studi sociali, 2015), ha affrontato il complesso rapporto tra cristiani e musulmani nel Regnum Siciliae degli Altavilla, offrendo anche una prospettiva storico-linguistica sugli arabismi presenti all’interno del dialetto siciliano. «I canali attraverso i quali l’arabo entra in contatto con il siciliano sono sostanzialmente due – spiega Ferdinando Raffaele, coautore del libro e curatore del saggio sui riflessi linguistici degli arabismi romanzi -. Il primo è rappresentato dalla conquista militare della Sicilia da parte degli arabi con il conseguente trasferimento nell’isola di centinaia di migliaia di persone. Delle quali solo una parte parlava l’arabo, mentre la maggior parte era di altre lingue come quella berbera o la persiana. Tuttavia – continua lo studioso – per le varie componenti etnico-linguistiche giunte in Sicilia, l’arabo rappresentava la lingua di cultura, in quanto lingua del libro sacro e della liturgia islamica. Il secondo canale – aggiunge Raffaele – è dato dai commerci che, nonostante lo stato di conflitto tra arabi ed europei, non cessano mai di esistere».
Oggi l’influenza araba è riscontrabile in circa 300 parole siciliane, molte delle quali riguardano l’agricoltura e le attività ad essa collegate. Gli arabi, infatti, introdussero in Sicilia molte tecniche all’epoca sconosciute, specialmente nel campo dell’irrigazione e della coltivazione di nuove piante. «La lingua araba ha lasciato le tracce più profonde e durature – prosegue Raffaele – anche nel lessico riguardante il commercio, la pesca, l’edilizia e l’artigianato. Di contro, vi sono pochissime tracce nell’ambito del diritto, della norma sociale e della religione e sono quasi del tutto assenti nel lessico dell’interiorità e della vita affettiva».
La lingua araba è, dunque, penetrata nel lessico materiale e non ha inciso significativamente su quello immateriale. «Questa analisi – conclude Raffaele – confermerebbe che tra la popolazione locale, che parlava il volgare neolatino , e quella arabofona c’è stato un importante rapporto di convivenza ma non quella fusione culturale alla quale fanno riferimento gli studiosi che parlano di sintesi felice, durante il dominio arabo e poi sotto i primi re normanni, tra la popolazione di cultura greco-latina e di religione cristiana e quella di lingua araba e di religione islamica».
Tra gli arabismi presenti ancor oggi nel siciliano, soprattutto in ambito agricolo, possiamo ricordare: fastuca, che indica sia la pianta che il frutto del pistacchio, dall’arabo fustuq ; gébbia, che è la vasca per la raccolta delle acque, dall’arabo djeb; cantàru, misura di peso pari a cento rotoli, cioè il quintale, dall’arabo qintar ; tùmminu, misura di superficie, dall’arabo tumn che indicava l’ottava parte; càlia , i notissimi ceci abbrustoliti, dall’aggettivo arabo qaliyya cioè fritto o arrostito; zibbìbbu, uva bianca da tavola e il relativo vino, dall’arabo zabib cioè uva passa; giarra, recipiente di terracotta adoperato per conservare i liquidi e soprattutto l’olio, dall’arabo garra; dammùsu, che indicava il carcere, dall’arabo dammus caverna, e tannura, il focolare o forno rustico, dall’arabo tannura.
Una citazione particolare merita cabbasìsa, che vuol dire bacca rinomata, dall’arabo habb aziz. Si tratta di una specie di pianta erbacea che produce un tubero commestibile noto come zigolo dolce e dei piccoli frutti ovali ricoperti da una peluria. L’espressione tipica del dialetto palermitano – che rimanda ai genitali maschili – è divenuta famosa grazie allo scrittore Andrea Camilleri che, attraverso il commissario Montalbano, ha contribuito a diffondere un modo di dire prettamente siciliano e di origine araba in tutta Italia.