Dei pericoli per chi lavora ore sotto il sole si parla a stento, perché la produzione estiva è quasi in stallo. Ma «almeno il 70 per cento è costretto a lavorare in situazioni ingiuste», denunciano le sigle sindacali che fanno il punto sul settore dell'agroalimentare
Le condizioni dei 30mila lavoratori agricoli etnei «Oltre il nero, sfruttamento e paghe insufficienti»
«L’unica soluzione contro il caldo all’interno delle serre è cercare di seguire, anche dentro ambienti artificiali come quelli, il ritmo della natura». È un ragionamento pratico quello del segretario regionale della Flai Cgil, Alfio Mannino per contrastare l’afa estiva moltiplicata dalla plastica delle serre. «In questo caso, non si può certo pensare di refrigerarle in nessun modo perché – puntualizza – si perderebbe l’effetto serra. La sola via da percorrere è quella di cambiare l’organizzazione del lavoro assecondando il ritmo della natura». Questo significa non lavorare nelle ore più calde della giornata (dalle 12 alle 16) «anticipando l’inizio alle 5.30 del mattino, e concedere ai lavoratori alcune pause ogni due ore, anche della durata di un’ora per i lavori più pesanti e gravosi». Così è previsto anche dalla flessibilità del contratto provinciale di lavoro, ma non tutti lo rispettano. La scorsa settimana, infatti, un lavoratore di Mazzarrone, in provincia di Catania, è stato licenziato per essersi rifiutato di continuare a lavorare in una serra a Gela, all’interno della quale erano almeno cinquanta i gradi percepiti.
«Nel Catanese, il problema del caldo torrido estivo non è molto sentito dai lavoratori, più che altro – spiega Mannino a MeridioNews – perché nel territorio etneo non c’è una grossa produzione in serra». Prodotti di nicchia come la tipica fragolina di Maletto; pomodorini, melanzane, zucchine, peperoni e angurie nelle serre della zona della Piana di Catania, fiori in quelle del Giarrese, ortaggi tra Adrano, Biancavilla e Paternò, ma soprattutto agrumeti a campo aperto nei territori di Belpasso, Motta Sant’Anastasia e Adrano. Di questo vive, la filiera agroalimentare della provincia etnea nella stagione più calda dell’anno. «Per il resto, è un settore fatto prevalentemente di piccole aziende spesso a conduzione familiare, che nel periodo estivo è quasi in stallo».
La raccolta dell’uva parte dalla seconda metà di agosto, poi si passa alle olive e, dopo ancora, ai diversi tipi di agrumi. Tra luglio e agosto, insomma, ci sono poche produzioni agricole, quindi il problema della sicurezza legata al periodo estivo è poco sentito in quest’area. «Quando un fenomeno non è diffuso viene percepito con più difficoltà», precisa il segretario della Flai Cgil. Il lavoro così parcellizzato interessa un numero sparuto di addetti che hanno un rapporto diretto con l’azienda. È anche questa condizione a rendere più difficili da intercettare i fenomeni di lavoro sporco, che pure c’è. «Nel periodo della raccolta, ci arrivano molte segnalazioni di lavoratori in nero e sottopagati – afferma Pippo La Spina della Fai Cisl – Una paga che in situazioni purtroppo diventate normali è di 40 euro a giornata, ci sono casi in cui il lavoratore al tramonto si mette in tasca appena 20 euro. E in molti casi, non sappiamo ancora cosa succede dietro ai cancelli delle ditte dei produttori».
In tutta la provincia di Catania i braccianti regolari sono circa 30mila. «Di questi – denuncia il segretario generale della Sifus, Maurizio Grosso – almeno il 70 per cento è costretto a lavorare in condizioni ingiuste di lavoro sfruttato e malpagato». In media 40 euro a giornata per turni di lavoro che arrivano a superare anche le 12-14 ore al giorno. «Di questi 30mila, però – spiega il segretario – un buon 15 per cento sono braccianti falsi, ovvero assunti fittiziamente da ditte che spuntano come funghi per occuparsi solo di assunzioni». Lo scopo è quello di ottenere l’indennità di disoccupazione.
«A questi vanno aggiunti oltre diecimila lavoratori irregolari – prosegue – che sono completamente in nero». Italiani e stranieri che fanno un lavoro sporco che rappresenta la base produttiva dell’agroalimentare che porta sulle tavole gli alimenti più locali. «Gli stranieri – aggiunge Grosso – sono quasi esclusivamente in mano ai caporali» e la condizione di irregolari impedisce loro di denunciare le situazioni di sfruttamento che vivono. «Inasprire le pene per i caporali serve fino a un certo punto ma di sicuro – lamenta Grosso – non risolve la questione. Bisognerebbe far funzionare meglio i centri per l’impiego, anche durante il pomeriggio per evitare che a cercare lavoro alla giornata si vada ancora nelle piazze di paese».