Lampedusa amara e bella

Il 7 giugno del 2008 viene sepolta nel cimitero di Lampedusa una exstracomunitaria (sic). È una tra i 31.000 sbarcati a Lampedusa nel corso dello scorso anno. La sua morte va ad incrementare le statistiche delle oltre 3.000 vittime lungo le rotte del Canale di Sicilia nell’ultimo decennio. Lo svarione sulla lapide accresce di tenerezza la misericordia per questa donna senza nome, di cui non sappiamo nulla di più a parte il suo essere fuori dalla comunità degli europei e da quella dei vivi.

 

Il vecchio custode del cimitero di Lampedusa, invece, nel 2003 ha raccolto 12 cadaveri in mare, alcuni impigliati tra le reti dei pescatori. Erano tutti maschi e tutti giovani, affogati durante uno dei tanti sbarchi. Li ha ricomposti, li ha seppelliti e quasi ogni mattina va a trovarli, anche ora che è in pensione. Recita una preghiera per questi corpi ricordati da una croce e da un numero e della cui pietà lui è probabilmente l’unico testimone.

 

Partire dal cimitero è una strada per provare a capire Lampedusa. Perché nulla più di una frontiera metafisica può raccontare quello che avviene alla frontiera geografica della porta d’Europa, visitata recentemente da una delegazione della Caritas Italiana composta dal Presidente mons. Merisi, dal direttore nazionale don Nozza, dai Vescovi siciliani mons. Montenegro e mons. Romeo e da  circa 80 referenti diocesani per il settore immigrazione.

Perché se è vero che le frontiere separano, articolano, aprono scambi e innesti (in altre parole regalano complessità) questo è proprio quello che avviene a Lampedusa. Un’isola più vicina all’Africa che all’Italia, su cui da qualche anno sono puntati i fari dell’attenzione mediatica e politica. Un territorio con poco più di 5.000 residenti di cui un quinto in età scolare che frequenta una scuola fatiscente. Un luogo  dove tutto ciò che nei comuni della terra ferma è ordinario diventa straordinario.

 

Per il resto d’Italia è ormai l’isola degli immigrati, anche se di migranti a Lampedusa non se ne vede uno, a meno di cercarli dietro le recinzioni dei due centri predisposti alla loro accoglienza. Al momento della nostra visita ne ospitavano circa 800 di cui oltre 600, di nazionalità tunisina, nel Centro di Identificazione ed Espulsione, l’anticamera del rimpatrio, l’asso nella manica della camicia verde del Ministro Maroni che con un CIE sull’isola si garantisce respingimenti certi, anche se in numero limitato a causa del lungo periodo di soggiorno richiesto per l’identificazione.

 

Quelli che si vedono in gran numero, invece, sono i poliziotti e i carabinieri che nel CIE lavorano, tanto che, lamentano gli abitanti di Lampedusa con il sindaco De Rubeis in testa, il territorio sembra militarizzato e ripiombato in pieno periodo post unitario quando l’isola venne scelta come colonia penale. Anche se pare che il dispiegamento di blindati e manganelli non funzioni sempre, visto che lo stesso sindaco riferisce ai delegati della Caritas della fuga di circa 50 migranti. Come sia stato possibile per loro superare il filo spinato e dove siano potuti finire su un’isola di appena 20 chilometri quadrati non si sa, i militari al momento della nostra partenza li cercavano ancora. E non deve essere facile la vita delle forze dell’ordine a Lampedusa, una truppa composta da circa 500 presenze, in gran parte giovani come i migranti che sorvegliano, sottoposti a tensioni continue sul luogo di lavoro e pedine loro malgrado di una partita che si gioca tra il Ministero dell’Interno e l’opinione pubblica isolana.

 

Qualche voce contrastante, in verità, filtra da una parte delle istituzioni. Si sente dire che solo in tabacchi i militari spendono mensilmente sull’isola circa 45.000 euro, che gli alberghi rimangono aperti anche in inverno e che 70 cittadini di Lampedusa hanno trovato lavoro nei centri di accoglienza. Le risposte a queste obiezioni, però, sono altrettanto decise: l’isola ha una storica vocazione turistica e gli euro garantiti dalle presenze militari nell’immediato rischiano, sul lungo periodo, di rivoltarsi contro l’economia isolana, immiserendo l’afflusso di vacanzieri.

 

Chi ha le idee chiare in proposito è Don Stefano Nastasi, parroco di Lampedusa: “la presa di posizione del Ministro che ha creato un centro di identificazione ed espulsione a Lampedusa è sembrata lontana e fuori luogo rispetto alle nostre aspettative. Se da un lato possiamo comprendere le preoccupazioni del governo di coniugare accoglienza nella legalità e sicurezza, dall’altro non possiamo condividere l’idea che ciò si attui mettendo in gioco un territorio così piccolo quale è Lampedusa. Abbiamo maturato l’impressione di essere ridotti a vittima sacrificale pur di salvaguardare l’immagine di un Governo, quello italiano, e del Parlamento Europeo proiettati verso altri lidi di tensione. Non è lecito chiedere ad un popolo ed ad un territorio così piccolo di sopportare un peso così gravoso, che è di portata nazionale ed europea. Non è lecito chiedere tutto ciò quando non si è disposti a sostenere il cammino di una popolazione locale che vive in stato di provvisorietà in materia sanitaria, scolastica, come anche nel campo delle politiche sociali e giovanili.”

 

E altrettanto forte è risuonato l’appello di Mons. Franco Montenegro, Vescovo di Agrigento. È uno dei tre Vescovi che a Punta Maluk, estrema propaggine sud dell’isola, di fronte alla Libia, partecipa al momento di preghiera in memoria delle vittime del mare e simbolicamente passa sotto la porta costruita dall’artista Mimmo Palladino. “Chiedo alla politica – ha dichiarato- di non essere miope e di usare il cemento per costruire scuole, ospedali ed infrastrutture in favore dell’isola e non per alzare muri”.

 

E mentre la Chiesa, tramite la Caritas, prende una posizione che chiede un ripensamento delle politiche riguardanti l’immigrazione, si riaffaccia la preoccupazione per nuovi sbarchi, nuove vittime, sistematiche violazioni dei diritti umani in Libia.

Si cerca un po’ di silenzio all’Isola dei Conigli, il punto più turistico di Lampedusa, che in questa fine marzo è popolata solo dai gabbiani. Il panorama migliore lo gode la casa che fu di Domenico Modugno, uno dei primi scopritori della bellezza di quest’isola. Chissà se il cantautore pugliese avrebbe mai immaginato che quella terra amara e bella di cui cantava con accenti di struggente malinconia in anni di emigrazione dall’Italia, potesse diventare la metafora per raccontare anche le terre di accoglienza, la loro resistenza nel fortino della sicurezza, la difficile comprensione delle ragioni per cui l’umanità fatichi ad incontrarsi alle frontiere.

 


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