L’altro Paolo Borsellino, vittima di mafia dimenticata «Per molti anni considerato un doppione del giudice»

«Per molti anni, il nome di mio fratello non è stato nemmeno letto nell’elenco delle vittime innocenti delle mafie durante la Giornata della memoria e dell’impegno che Libera celebra ogni anno il 21 marzo». A parlare a MeridioNews è Antonella Borsellino, la sorella di Paolo Borsellino. Non il giudice ucciso dalla mafia nella strage di via D’Amelio del 19 luglio del 1992, ma l’imprenditore poco più che 30enne di Lucca Sicula (in provincia di Agrigento) anche lui ucciso da Cosa nostra il 21 aprile del 1992. «Stesso nome, stesso cognome. Per molto tempo, quello di mio fratello è stato considerato un doppione – racconta Antonella che da anni è un’attivista dell’associazione antimafia ed è la referente del locale presidio di Libera – anche perché, per via delle date di morte, i nomi nell’elenco sono proprio uno dopo l’altro». 

Il fratello Paolo, non è l’unico della famiglia Borsellino a essere nell’elenco delle vittime innocenti delle mafie. «C’è anche mio padre Giuseppe – sottolinea – che è stato ammazzato otto mesi dopo mio fratello». Quella dei Borsellino nell’Agrigentino è una famiglia di imprenditori. Paolo, dopo un periodo di gestione di un bar nella piazza del paesino di nemmeno 1800 abitanti, decide di investire tutto nell’azienda di famiglia che si occupa di movimento terra. Quando arrivano le richieste di pizzo, padre e figlio si oppongono. E, così, arrivano i primi incendi dolosi di materiali e mezzi della ditta. E prendere gli appalti diventa sempre più difficile. A un certo punto, arrivano anche delle proposte di acquistare l’impresa da parte di intermediari delle famiglie mafiose del posto. «Mio padre a mio fratello, si sono sempre opposti, non si sono mai piegati al volere delle cosche mafiose e hanno cominciato a denunciare tutto», ricorda Borsellino.

È il 21 aprile del 1992 quando Paolo Borsellino viene trovato morto all’interno della sua auto parcheggiata a pochi metri da casa. A freddarlo sono stati alcuni colpi di fucile. «Da allora – ricorda la donna – per mio padre è cambiato tutto e, per amore, ha dedicato tutta la sua vita a cercare la verità per l’uccisione di mio fratello». Una verità che ancora oggi non c’è, visto che non si è mai arrivati a un processo. «Da quel momento, ha cominciato a raccontare tutte le storture che c’erano nella gestione e nell’affidamento degli appalti. E, così – aggiunge – sono iniziate anche le minacce, di fronte alle quali lui non ha fatto nemmeno un passo indietro e anzi ha continuato a raccontare agli inquirenti tutto quello che sapeva e anche sulle ipotesi dell’assassinio di Paolo». Otto mesi dopo, a dicembre viene ammazzato anche Giuseppe. Un omicidio plateale avvenuto nella piazza centrale di Lucca Sicula in pieno giorno, intorno alle 17 di pomeriggio, freddato da due killer a bordo di una motocicletta

«Per l’omicidio di mio padre – dice Borsellino – è stato condannato soltanto l’esecutore materiale, il figlio del locale capomafia, mentre non si è mai saputo nulla sui mandanti. Ogni volta che sento che c’è un nuovo pentito, in me si riaccende la speranza di potere arrivare alla verità e di avere, quindi, giustizia». E, in effetti, è dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia – un ex poliziotto che era stato nella scorta del giudice Giovanni Falcone e che poi si era affiliato a Cosa nostra – che, di recente, è arrivata la svolta per l’omicidio di Diego Passafiume. Un imprenditore di Cianciana (nell’Agrigentino) amico di famiglia dei Borsellino, ucciso nell’agosto del 1993. A essere arrestato, con l’accusa di essere l’esecutore materiale del delitto, è stato un affiliato alla famiglia mafiosa di Siculiana coinvolto anche nel sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo. «Quest’anno, per la prima volta, il nome di Passafiume è stato inserito nell’elenco che è stato letto per la Giornata della memoria e dell’impegno – conclude Borsellino – E questo grazie alla determinazione dei suoi figli che, pur avendo lasciato la Sicilia, non hanno mai smesso di chiedere che venisse fatta giustizia».


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