Il viaggio di MeridioNews all'interno dell'immobile al viale Moncada, a Librino. Per anni simbolo di malaffare e adesso interessato da un progetto di rilancio. Spenti i riflettori, non mancano i problemi. Le storie di Rosetta, Angela e Giuseppe. Guarda il reportage
La vita nel palazzo di cemento a tre mesi dalla consegna Sovraffollamento, disagi e bimbi che sognano cameretta
Rosetta abita al nono piano e la sua casa, attesa da 16 anni, è composta dalla stanza da letto e da una cucina soggiorno. Dentro ci vivono in cinque: il marito e i tre figli, tutti abbastanza grandi, ma costretti a dormire in un divano letto che aprono e chiudono ogni giorno. Avere uno spazio dedicato ai più piccoli all’interno dell’ex palazzo di cemento al civico 3 di viale Moncada, a Librino, è un lusso riservato a pochi. Quando Angela, di professione commessa in un panificio, ci apre la porta di casa sua dentro c’è ancora un cantiere. Insieme al marito sono riusciti a ricavare una stanzetta per le due figlie. Un buco in cartongesso senza finestre in cui c’è l’essenziale: un letto, un filtro per il ricircolo dell’aria e una piccola cassettiera dove le ragazzine hanno sistemato trucchi e rossetti. Sembrerà strano, condividendo uno spazio di due metri per due, ma sono delle privilegiate, anche perché il loro rifugio ha pure la porta. Giuseppe, autista degli autobus che non lavora ormai dall’inizio della pandemia, è riuscito a ricavare un angolo per i suoi due figli, di cui uno autistico. Dormono in un letto a castello ma non hanno nemmeno lo spazio per la scrivania. Quando bisogna studiare e fare i compiti l’unico tavolo della casa è in cucina.
Dentro questo palazzone alto 52 metri il tempo sembra essersi fermato. Ci vivono 96 nuclei familiari – quasi 400 persone – distribuiti in 14 piani. Da inizio gennaio il Comune di Catania, ente proprietario del bene, ha assegnato gli alloggi a chi era in lista. Un percorso lungo e tormentato passato per decenni di abbandono, degrado, abusivismo e mafia. L’immobile, per anni, è stato la roccaforte della famiglia Arena e di traffici illeciti legati a droga e armi. Un passato che in pochi nominano e che le istituzioni vorrebbero archiviare per sempre. Quando chiedi come si vive nel palazzo di cemento gli inquilini ti correggono: «Si chiama torre Leone», dal nome dell’architetto catanese Giacomo Leone, morto nel 2016 a 87 anni.
Il confine tra presente e passato è una striscia d’asfalto e un passaggio pedonale sopraelevato. Proprio di fronte alla torre ci sono le gemelle C4 e C5 appartenenti al polo San Teodoro. Pusher e vedette stazionano a venti metri dall’ingresso di torre Leone ma qualche visita è già stata registrata nei primi due piani. Cioè quelli non destinati alle abitazioni e ancora non completati dove sono comparse grosse infiltrazioni d’acqua e di scarichi fognari. «Gli assegnatari hanno fatto una raccolta firme per chiedere che i piani bassi vengano dati alle associazioni presenti sul territorio e a una ramificazione dell’amministrazione pubblica – spiega a MeridioNews Dario Gulisano, responsabile Disagio abitativo Cgil – Sarebbe un bel segnale per un quartiere utilizzato da sempre come serbatoio elettorale». «Non si tratta di una richiesta secondaria – aggiungono i segretari generali di Fillea e Spi, Vincenzo Cubito e Carmelo De Caudo – considerato che in ballo ci sono dei locali che, a seconda dell’uso che se ne farà, condizioneranno il destino dell’intero palazzo e di conseguenza di questa porzione di quartiere».
Nel palazzo, il Comune non ha ancora nominato un amministratore di condominio, gli ascensori – tutti dotati di pulsantiera touch screen – hanno già affrontato i primi guasti e c’è anche il problema delle infiltrazioni di acqua lungo le scale. Nessuno, però, si è sentito di rinunciare all’appartamento dopo attese durate anni. «Ho assistito a una lotta contro gli occupanti abusivi e qualcuno per difendere casa è finito al Pronto soccorso», racconta un inquilino che, però, non vuole essere ripreso per la paura di ritorsioni. L’uomo spiega anche l’esistenza di una sorta di tariffario: «Cinquemila euro per vendere casa e mille euro per cambiarla quando si è in troppi». Tuttavia, in tanti hanno scelto di adattarsi a quello che gli è stato concesso senza fare ricorso a strade alternative. «Viviamo con i 400 euro del reddito di cittadinanza – racconta Ignazio – l’importante è fare la spesa per dare da mangiare ai miei figli. Io e mia moglie ci accontentiamo di un pezzo di pane».