La tv delle ragazze Arabe

Mathilda è in camerino per gli ultimi ritocchi. Sulle palpebre sfuma un ombretto perlato color prugna, disegna il contorno degli occhi con la matita nera. Un tocco di fard, quel rossetto lucido che le piace tanto. Rilegge le domande che la sua assistente ha pazientemente riportato in ordine su un foglio. Si alza, si specchia un’ultima volta, sistema i capelli ondulati che le cadono morbidi sulle spalle. Poi s’aggiusta la scollatura. Ecco, ora, è a posto. Chiude la porta dietro di sé. Tre, due, uno, Mathilda guarda la luce rossa della telecamera: inizia un’altra puntata di Jari’ Jiddan (“troppo audace”, in italiano) programma di punta di Heya Tv, prima emittente televisiva dedicata alle donne arabe.

 

Nata poco più di tre anni fa da un’idea del produttore arabo Nicolas Abu Samah, il canale Heya (“lei”) trasmette da Beirut, Libano, utilizzando il satellite egiziano NileSat e presto anche ArabSat. Il suo obiettivo è assicurare uno spazio di dibattito televisivo ai cento milioni di donne che vivono in Medio Oriente e nel Nord Africa, e sfruttare una nicchia di mercato finora trascurata dai media tv in lingua araba. Sapientemente elaborata, la ricetta del palinsesto utilizza ingredienti semplici: una lezione di cucina e una di cucito, un film e una soap opera sudamericana. Ma Heya Tv fa di più, trasmette dibattiti con ospiti noti, uomini e donne chiamati ad affrontare questioni di forte interesse sociale, anche difficili: il velo islamico, la violenza domestica, la diffusione dell’Aids. Dagli studi della collina di Hazmiyye, un gruppo di operatori, tecnici, assistenti, più una decina di giornaliste, tutti indaffaratissimi, si coordinano con una manciata di corrispondenti distribuiti in diversi Paesi della regione.

 

Lo staff è composto perlopiù da giovani, quasi tutte donne. Nei corridoi non si scorgono signore velate, e qui e là, sulle scrivanie, spuntano immagini religiose anche cristiane. Mi colpisce lo spirito informale, amichevole con cui ti accolgono, in una saletta un po’ spoglia, in fondo a un corridoio. Qui giunge l’eco di un dibattito acceso. Immancabile e atteso, guidato dai passi di un giovane cameriere, si insinua, poco dopo, anche il profumo di caffè al cardamomo, che secondo la migliore tradizione araba viene servito all’ospite in alternativa al tè. Quando si riferisce alla sua tv, Nicolas Abu Samah non parla di rivoluzione, termine che, se utilizzato con poca cautela, avrebbe il solo risultato di attirare nemici e allontanare le spettatrici. Preferisce la parola “evoluzione”, perché qui si tratta di dipingere il volto moderno della donna araba. Con Heya Tv, dice, vuole “pigiare bottoni, sollevare dibattiti”, stimolare le telespettatrici a riflettere sulla propria condizione.

 

I programmi della giornalista libanese Mathilda Farjallah sono tra i suoi assi nella manica: in Jari’ Jiddan, Mathilda intervista soprattutto ospiti femminili, esempi di modernità e emancipazione. Con Al-Makshouf (“svelato”), cerca invece di “rompere i tanti tabù che soffocano la società araba”, animando in maniera intelligente e costruttiva, “da un’angolatura nuova”, dibattiti intorno a questioni sociali di forte attualità. “Molte sono state le puntate dedicate al ruolo della donna moderna nel nostro mondo”, dice ancora la giornalista. Una presenza determinante, ma penalizzata, in quanto a volte sono “le stesse donne a non conoscere i propri diritti”. Così, in una delle puntate più “forti”, Mathilda ha introdotto la questione del velo islamico, sottolineando la necessità che indossarlo sia il risultato di una “scelta personale della singola”, e non un’abitudine inculcata nell’infanzia. Ha inoltre affrontato il tema del terrorismo, invitando anche sheikh (guide religiose islamiche) con cui ha discusso di fanatismo, ma pure del ruolo delle tv satellitari nel fomentare l’odio.

 

A volte questi confronti assumono toni davvero accesi. Il 30 dicembre 2004, Heya Tv ha mandato in onda un dibattito centrato su uno dei temi più scottanti e attuali, non solo nelle società arabe: la violenza domestica. I ricercatori del Memri (Middle East Media Research Institute) hanno citato il programma in uno dei loro rapporti sul monitoraggio delle tv mediorientali. Gli ospiti in studio erano l’attivista libanese per i diritti delle donne Zaynab Gheith, l’imam libanese Zakariya Ghandur e la scrittrice algerina Fadila Al-Faruq. Il dibattito si è aperto con l’intervento di Ghandur: “Nell’educazione, le percosse – non troppo brutali – servono come forma di rimprovero. Ma questo è vietato. È invece ammesso l’utilizzo di una riga da disegno per colpire le mani, le spalle, le natiche. Si tratta di una punizione nei confronti di una donna quando tutti gli altri metodi hanno ormai fallito. Come fanno una madre o un padre quando picchiano i figli per impedire loro di commetter errori, non per odio o animosità”.

 

A questo punto, l’intervistatrice ha chiesto al religioso se anche la moglie è autorizzata a battere il marito nel caso lo ritenga necessario, con le stesse motivazioni. “No”, ha tuonato Ghandur. “Il comando va all’uomo. Ma la donna può rifiutare di avere rapporti intimi con lui”. Reazione indignata della scrittrice Fadila Al-Faruq: “Vivo in un quartiere popolare. Ogni notte sento le grida delle donne. Magari vengono percosse soltanto perché un uomo le fissa. Sono innocenti, e nonostante questo vengono punite. Parliamo di pestaggi, non di uno schiaffo o due”. E questo, ha continuato la scrittrice, non accade soltanto in Algeria, ma anche nel resto del mondo arabo e oltre.

 

Al-Faruq ha affermato che oltre due milioni di donne sono vittime della violenza in Francia. Il dibattito si è acceso. A quel punto, la conduttrice ha chiesto se ci sia una differenza fra una donna che subisce violenze nel mondo arabo e una in un’altra società. Al-Faruq: “Esiste una differenza fra donne occidentali e arabe. Le occidentali conoscono i loro diritti. Sanno a chi rivolgersi, come parlare alla polizia. A volte sono gli stessi vicini a intervenire”. A misurare il successo di questi dibattiti ci sono oltre 130 e-mail e centinaia di sms che ogni giorno arrivano in redazione da tutti i Paesi dell’area, dal Marocco alla Siria, fino al Golfo. L’emittente raggiunge oggi circa venti milioni di telespettatori. Per ora sono esclusi dalla programmazione i notiziari, mentre i dibattiti non affrontano mai questioni direttamente legate a fatti di politica e non prendono posizione in merito a temi di carattere religioso. Si tratta di contesti in cui è difficile muoversi senza attirarsi l’odio delle frange più conservatrici della società.

 

Anche nel democratico Libano. Heya Tv resta comunque un’iniziativa interessante, che secondo Abu Samah è stato possibile realizzare proprio perché ci si trova qui. Dagli anni ’50 agli anni ’70, prima dell’inizio della guerra civile, il Libano è stato forse l’unico Stato arabo dove le istituzioni democratiche hanno funzionato, grazie soprattutto a un accordo di spartizione delle cariche istituzionali tra i diversi gruppi religiosi (cristiani, sunniti, sciiti). Per un ventennio, questo contesto politico ha fatto del Paese la culla della libertà d’espressione, una nazione dove far nascere case editrici e testate giornalistiche, finanziate anche da esponenti politici di altri Stati arabi. Ogni corrente di pensiero era rappresentata nella stampa, che ha così garantito a quella generazione di giornalisti una reale libertà, e la possibilità di formarsi in un clima di grande dialettica.

 

Lo stesso clima che, nel maggio dello scorso anno, ha portato alla diffusione a Beirut di Barra (“fuori”), prima rivista gay e lesbica del Medio Oriente. Una bella conquista, in un’area in cui l’omosessualità è ancora punita con il carcere o addirittura con la morte. Ora sono seduta al bar. Bevo una buona birra locale, la Almaza. In lontananza osservo i minareti della moschea donata ai sunniti dall’ex premier Rafiq Hariri. Quando sarà buio, a Jemmaize si accenderanno le luci di mille locali, e allora sarà come essere in un quartiere arabo di Parigi. La calma è però solo apparente: dall’ottobre 2004 ci sono stati oltre quattordici attentati, il più grave dei quali ha ucciso proprio Hariri. Molti così si chiedono dove stia andando ora il Paese dei Cedri. E come proseguirà, la piccola rivoluzione delle donne di Heya Tv.

 

*L’autrice scrive per Adnkronos International

 

Questo articolo è tratto dal web (“D La Repubblica delle donne”) del 6 maggio 2006


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