«La trattativa tra Stato e mafia? Una bufala»

«I morti non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole dei morti. É una condizione che crea inestricabili ambiguità». Lo scriveva Giuseppe D’Avanzo qualche giorno fa su Repubblica in riferimento alle parole di Massimo Ciancimino, il teste che racconta i segreti del padre Vito, ex sindaco di Palermo, morto nel 2002.

Il più piccolo dei figli di don Vito ha iniziato a testimoniare nel 2007 davanti ai giudici della Procura di Palermo, al processo dove sono imputati il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu. Nel novembre scorso ha anche consegnato ai magistrati la copia originale del famoso papello, prova della presunta trattativa tra lo Stato e la mafia.

Salvatore Lupo, esperto del fenomeno mafioso e ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Palermo, è di tutt’altro avviso: «Penso che il patto tra Cosa Nostra e lo Stato sia nel complesso una grande bufala».

Professore, qual era il ruolo di Vito Ciancimino negli anni ’80 e ’90? Chi rappresentava?
«Conosciamo Vito Ciancimino come sindaco di Palermo della Democrazia Cristiana, quando faceva e disfaceva l’amministrazione comunale cittadina pur essendo originario di Corleone. Negli anni dello scontro feroce tra Cosa Nostra e le istituzioni della Repubblica italiana, cioè tra gli anni 80 e l’inizio degli anni 90, Vito Ciancimino già non era più nessuno. Ad un certo punto, nel 1985, fu anche espulso dalla Dc. Eppure dalle ultime indagini sembrerebbe evidente che abbia conservato un ruolo di mediazione per i corleonesi, soprattutto nella fase di passaggio tra Riina e Provenzano. Tuttavia le uniche informazioni che abbiamo sono quelle del figlio Massimo, attendibili fino ad un certo punto».

Quindi, secondo lei, non è credibile, visti i profili delle due figure, che Marcello Dell’Utri fosse in grado di sostituire Vito Ciancimino in questo ruolo di mediazione?
«No, Dell’Utri ha un’altra storia che non è concorrenziale a quella di Vito Ciancimino. È un uomo importante di Publitalia e del giro berlusconiano, il cui ruolo, ad un certo punto, sembrerebbe essere stato quello di garantire una relazione tra Cosa Nostra e il gruppo di Berlusconi. Vito Ciancimino non era più da molto tempo un personaggio importante della politica, e inoltre lo era stato solo a livello locale a Palermo, a differenza di Salvo Lima che aveva ben altro ruolo nella vita politica regionale e nazionale. Dall’altro lato Dell’Utri era un grosso personaggio del gruppo imprenditoriale affaristico emergente e del partito politico in via di formazione. Parliamo quindi di scale molto diverse, a prescindere dal discorso sulla mafia. Ciancimino padre, secondo l’ipotesi al vaglio degli inquirenti, si sarebbe offerto, o sarebbe stato richiesto da Riina o da qualcun altro, per un lavoro sotterraneo di mediazione tra il gruppo corleonese un po’ allo sbando e alcuni funzionari della Repubblica italiana».

Chi è invece Massimo Ciancimino? Che ruolo aveva in quegli anni?
«Assolutamente nessuno. Era un giovanotto con un sacco di soldi che derivavano dalle ruberie di suo padre».
 

Per cosa è sottoposto a processo? Di cosa è accusato?
«È accusato di reati finanziari, cose minori. Lui personalmente non è nessuno, i soldi gli vengono dal padre, per questo il suo patrimonio è a rischio di sequestro».

Massimo Ciancimino racconta una serie di fatti (la cattura di Riina, il mancato arresto di Provenzano, la nascita di Forza Italia) collegandoli ad un’unica tesi: sarebbero tutte conseguenze della trattativa tra Stato e mafia. Lei cosa ne pensa?
«Credo che nel complesso sia una bufala. Intanto non c’è nessuna trattativa tra Stato e mafia, è solo una terminologia giornalistica sproporzionata. La domanda da porsi è: chi è lo Stato? Il fatto che un singolo funzionario della polizia o un ufficiale dei carabinieri parlarono con Ciancimino, o persino l’eventualità che questi si siano messi d’accordo con Provenzano per trovare Riina in cambio di qualcosa, non costituisce una trattativa tra lo Stato e la mafia. Purtroppo è un malcostume inestirpabile delle autorità di polizia italiane cercare di mettere una fazione della mafia contro l’altra, sperando di strumentalizzarla ma finendo molto spesso col farsi strumentalizzare. Il questore Contrada, ad esempio, è finito in galera per un gioco di questo genere».

E il famoso papello? Delle richieste che la mafia avanzò su quel foglio, ne è stata realizzata qualcuna in questi anni?
«Nessuna richiesta del cosiddetto papello è mai stata realizzata. I teorici di questa trattativa dovrebbero spiegare come mai l’accordo non ha dato nessun risultato. Se una trattativa c’è stata, ha coinvolto Provenzano, Riina e forse un paio di ufficiali dei carabinieri. Questa storia del papello mi ricorda quando Salvatore Giuliano scriveva al presidente americano Truman proponendosi come campione della lotta anticomunista planetaria. Solo che Truman non lo prese mai in considerazione. Noi confondiamo a volte i tentativi, spesso goffi, dei mafiosi di accreditarsi come alleati di grandi potenze, con l’effettiva realtà. Tuttavia resta il fatto che il covo di Riina non fu perquisito, o almeno che della perquisizione non fu messa al corrente l’autorità giudiziaria. Può darsi quindi che in cambio di questa disattenzione, qualcuno ne abbia tratto giovamento».
 

Ritiene invece credibile che ci siano stati contatti, o interessi comuni, tra la mafia e il nascente partito di Forza Italia?
«Non capisco la connessione logica tra l’aspetto imprenditoriale e quello politico. Facciamo un’ipotesi: un giovane studente ricicla a scuola della merce rubata da un compagno; anni dopo diventa Presidente del Consiglio, o fonda un grande partito politico. Il suo compagno di scuola andrà a dire in giro che lui ha tra le mani il governo».
 

Secondo lei, quindi, aspetto politico ed imprenditoriale sono rimasti separati?
«Credo di sì. Che poi gruppi affaristici mafiosi e una serie di personaggi collusi, avendo in passato sfiorato, in una misura che io non so, una certa rete di interessi, si siano buttati dentro Forza Italia mi pare possibilissimo. In qualche caso perfino provato. Ma non c’è nessun grande complotto, le cose mi sembrano visibili. Né la relazione tra la mafia e un partito politico deriva dalle decisioni di un Ciancimino, ma neanche di un Provenzano. Sono movimenti di gruppi che si vanno a cercare lo spazio per esercitare un potere».
 

Un sistema quindi meno verticista di quanto si creda?
«Assolutamente. Secondo me, anche se Ciancimino la racconta così e probabilmente ne è anche convinto, resta una ricostruzione in parte fantastica. Non per questo gli inquirenti non fanno bene ad indagare. Le polemiche sulle trame dei magistrati e sulla giustizia ad orologeria sono delle grandissime balle».
 

Quello che racconta Ciancimino trova riscontro nelle dichiarazioni di altri testi o pentiti?
«Sì, anche perché la magistratura lavora su questa linea già da diversi anni. È stranissimo che ogni volta ci si stupisca. La cosa più probabile è che Ciancimino sia in buona fede, cioè che nell’ambiente di cui fa parte veramente si pensi di aver avuto un importante ruolo promotore di Forza Italia e si reclama una contropartita che non è arrivata».

Perché Ciancimino jr. parla solo adesso, a distanza di tanti anni, di queste vicende? Lui si difende dicendo che nessuno gli aveva mai posto prima certe domande. È credibile o, come sostengono i suoi detrattori, vuole difendere il tesoro segreto del padre? O c’è dell’altro?
«Quello che sostiene Ciancimino è evidentemente un’assurdità. Se è consapevole di raccontare cose così gravi, poteva farlo anche prima senza che nessuno glielo chiedesse. Neanche la teoria dei detrattori può essere da sola risolutiva. Io credo che lui sia convinto di dire cose vere nel complesso, esprime una convinzione collettiva. Ripeto, lui, come altri del suo ambiente, pensa davvero che Berlusconi sia un ingrato nei suoi confronti. Però ciò non vuol dire che sia vero. Noi che ragioniamo di politica, e non di misteri, dovremmo sapere che la nascita di Forza Italia non è derivata da nessun complotto o accordo misterioso, ma da una brillante operazione di marketing politico che ha intercettato una domanda politica esistente. Le ragioni del successo di Forza Italia si possono comprendere scendendo in strada e discutendone con chiunque. Questo non significa affatto che non ci siano delle questioni penalmente rilevanti che dovrebbero essere svelate e che il presidente del Consiglio nella sua vita ha sempre tenuto nascoste. Ma i piani sono distinti».

Il governo Berlusconi si difende sostenendo che si è sempre fatto promotore di un’antimafia dei fatti. Rispetto agli ultimi provvedimenti presi, quali sono quelli effettivamente utili e quali quelli nocivi?
«Non entro nel merito dei provvedimenti. Dico solo che è singolare che il governo Berlusconi vanti i successi contro la mafia, e allo stesso tempo attacchi quotidianamente diversi magistrati che sono i protagonisti di quelle vittorie, e discuta sempre di provvedimenti che mirano ad indebolire la loro azione. C’è una sensazionale incongruenza. Durante il governo Berlusconi la lotta alla mafia è andata avanti ad un buon livello, lo stesso degli ultimi anni. Ma questo dipende dall’impegno dei magistrati, da una certa vigilanza dell’opinione pubblica e possibilmente anche dal ministro Maroni che non ha messo i bastoni tra le ruote. Sostenere però che fatti di vent’anni fa non sono veri perché oggi è stato arrestato Provenzano o Lo Piccolo, indica il livello miserabile a cui si è ridotto il dibattito politico italiano».

Si è parlato di un certo dualismo dentro la Procura di Palermo, tra un gruppo di magistrati ‘minimalisti’ che agiscono solo quando sono certi di ottenere delle condanne con prove evidenti, e un gruppo ‘massimalista’ che si impegna in processi di livello superiore. Un esempio può essere il caso di Totò Cuffaro, condannato in appello per favoreggiamento aggravato, e ora di nuovo sotto processo con l’imputazione di concorso in associazione mafiosa. Esiste veramente questo dualismo?
«Il dualismo purtroppo c’è anche se non è esattamente di questa natura. Ci sono dei gruppi che si combattono, con accuse reciproche sempre sovradimensionate. Non è uno spettacolo edificante, anche perché sono persone valorose ed oneste. Venendo al caso di Cuffaro, la linea minimalista si è rivelata vincente, a dimostrazione che in alcuni casi è preferibile rispetto a quella massimalista. Credo che i cittadini vadano portati davanti ad un giudice per le colpe che hanno commesso, in relazione ad una condanna che si può ottenere, e non per affermare questioni di principio. All’inizio del processo la scelta di una linea minimalista provocò molte polemiche e accuse ingiuste, oggi constatiamo invece che i Pm hanno ottenuto un brillante risultato».


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