Sarebbero in migliaia, secondo l'associazione sindacale militare Lrm, gli uomini che si ammalano a causa delle missioni all'estero e di quello con cui entrano in contatto. Uno di questi è Francesco Paolo Giordano, arruolato a 17 anni, stroncato da una leucemia
La strage silenziosa dell’uranio impoverito Militari in lotta contro malattie e burocrazia
Cercava latitanti ma anche gente dispersa. Faceva ricognizioni, come si dice in gergo militare, disarticolava ordigni e bonificava quelle zone che qualcuno poteva prendere di mira decidendo di farle saltare in aria. Era un abile istruttore di guida e un pilota esperto, una guida per i più giovani e un polo di tenerezza assicurata non solo per i suoi figli, ma anche per tutti quei bimbi conosciuti all’estero, quelli per cui nella sua tasca c’era sempre qualche caramella pronta per regalare un sorriso. E poi c’erano le missioni, una parte che non si può tralasciare se si vuole provare a raccontare chi è stato Francesco Paolo Giordano. Figlio, marito, padre, collega, amico ma anche militare del quarto reggimento genio guastatori di Palermo. Lui già a 23 anni era un veterano. Quando conosce Francesca, la donna che diventerà la sua compagna di vita, è già stato almeno cinque volte in missione all’estero. Bosnia, Macedonia, Afghanistan, Kosovo: qui ci resta addirittura per tredici mesi filati, è uno dei pochi a riuscirci. È una vita non facile, in cui deve dividersi continuamente tra gli affetti che lo ancorano a Palermo e la sua passione che invece lo porta lontano, ovunque ci sia bisogno di lui. È uno, insomma, che non si tira mai indietro. «Ci penso io», era la frase che chiunque, almeno una volta, gli ha sentito pronunciare con sicurezza.
Altruista, generoso, appassionato e versatile, con uno spirito di adattamento oltre ogni immaginazione per un militare come pochi, tutto concentrato in un metro e novanta di coraggio. «Tornava diverso però da quelle missioni, provato, qualcosa cambiava sempre in qualche modo», ricorda oggi sua moglie. È un po’ come se lì all’estero ci vada, ogni volta, anche lei che invece rimane a Palermo. Come se lui non fosse l’unico a partire o, meglio, come se non fosse l’unico poi a portarsi dentro quanto inevitabilmente assimilato lì fuori. A un militare ci vogliono infatti mesi, quando va bene, per tornare alla dimensione reale, ma è sempre tanto, troppo il tempo in cui si continua a sentire addosso la stessa tensione provata durante le notti passate fuori, steso in un campo a dormire con un fucile a fianco pronto all’uso. «Mi parlò subito del suo lavoro, mi avvisò che il suo era un mestiere non facile». Era il 1999, ma i ricordi di Francesca sono nitidi come se queste cose se le fossero dette appena ieri. «Parlo, racconto di lui, sembro tranquilla, ma non è così – rivela subito -. Lui era un uomo pieno di coraggio e in qualche modo quel coraggio lo ha insegnato anche a me, tutto quello che mi diceva adesso mi risuona nelle orecchie e se oggi riesco ad andare avanti è soprattutto merito suo, di quest’uomo che non aveva paura di niente». Tranne di cosa avrebbe lasciato alla sua famiglia una volta andato via.
Quella di Francesco Paolo Giordano, infatti, non è una storia a lieto fine. «Ha cominciato a stare male mentre faceva Strade sicure – cioè l’operazione di sostegno alla pubblica sicurezza attiva dal 2008 -. Si sentiva stanco, ma pensavamo tutti che dipendesse dagli orari di lavoro, per quattro mesi ha smontato alle sei del mattino, pensavamo fosse spossato per questo servizio». Ma alla stanchezza si aggiunge, poi, una piccola ferita che non riesce a guarire, l’affanno nel salire le scale, il fiato sempre più corto, il corpo che si riempie facilmente di lividi e un’influenza che lo tiene a letto quasi svenuto per giornate intere. «Era il fisico che cedeva». Fino al 3 giugno 2016: lui è regolarmente in servizio, come sempre, ma a un certo punto si sente male. In quel momento sorveglia le abitazioni di alcuni giudici ed è impegnato in un servizio di bonifica del percorso, deve accertarsi che non ci sia nulla di anomalo, ma ha un mancamento. «C’era un infarto in corso – racconta oggi un suo collega e amico -. Un militare che è lì con lui capisce subito cosa sta succedendo, lo porta al Civico e praticamente gli salva la vita». Da qui scattano i controlli. «Ha mai fatto missioni all’estero?», è una delle prime domande che pone l’ematologo di turno, che si ritrova davanti quel paziente ancora in mimetica. L’esame al midollo rivela valori drammaticamente bassi. Di lì a poche ore la diagnosi: leucemia mieloide acuta, una forma molto brutta. «Ce l’ho e ne devo uscire, a casa mi aspettano mia moglie e i miei figli», è la sua reazione a caldo.
Da qui in poi sono mesi intensi, fra chemio e continui esami. «Amici e colleghi non lo lasciavano mai da solo, il telefono era sempre bollente, riceveva di continuo messaggi e telefonate, che gli davano la forza necessaria – racconta la moglie -. Facevo di tutto per non farlo sentire un malato e lui, poi, rimaneva quel combattivo di sempre e all’inizio ha reagito bene». Le cose si complicano dopo il ricovero alla clinica Maddalena, dove deve affrontare l’innesto di alcune cellule staminali prelevate dal midollo della sorella. «Lì il reparto era completamente sterile, non poteva avere nessun contatto con noi familiari, specie coi figli, visto che erano piccolissimi». Da quella stanza, guardato a vista dagli infermieri, può salutare la moglie solo attraverso un monitor che gliela mostra nel corridoio. «Non dimenticherò mai i suoi occhi in quel momento, è stato come se lo stessimo abbandonando lì. E il calvario era solo all’inizio». Dopo l’innesto, avvenuto l’11 agosto, riesce a passare qualche giorno a casa della madre, ancora lontano da tutti però. «Ha iniziato ad avere crampi e scariche di diarrea, la sua voce era sempre più tirata. Il primario disse di non preoccuparsi, che doveva riabituarsi all’alimentazione. Ma le scariche continuavano e l’8 settembre si è ricoverato di nuovo». Francesco Paolo aveva avuto una graft, cioè un rigetto di quello che gli era stato innestato.
Il suo morale crolla e nel giro di qualche settimana smette di mangiare, di dormire e anche di parlare. «Lui lo sapeva che era questione di poco, lo aveva capito». Perciò inizia a pensare spasmodicamente al dopo, a chi sarebbe rimasto qui anche dopo di lui, dando disposizioni precise ad amici e colleghi, programmando praticamente ogni mossa, con una lucidità che a ripensarci oggi fa quasi impressione. Mentre l’appoggio e la solidarietà del quarto reggimento restano incondizionati, «l’altro pezzo della mia famiglia», dice oggi Francesca, piena di gratitudine. Le cellule iniettate intanto distruggono tutto, anziché riparare, fino a scatenare un’emorragia interna, che nel giro di poco se lo porta via. È martedì 11 ottobre 2016. Ma il tempo per piangere è poco. Bisogna seguire le istruzioni lasciate. La prima è, forse, la più importante: ottenere le attestazioni ufficiali che riconoscano che lui quella fine l’ha fatta per via di quelle missioni, di quello con cui il suo corpo è entrato in contatto. Ad occuparsene è un collega che si è arruolato a soli 17 anni proprio insieme a Francesco Paolo, oggi responsabile del dipartimento delle cause di servizio e vittime del dovere della neonata associazione sindacale militare Lrm (libera rappresentanza dei militari).
«Cerchiamo di alleviare la sofferenza di quei colleghi che si sono ammalati, sia dal punto di vista legale, che amministrativo, medico, emotivo – spiega il militare -. Ho visto il terrore negli occhi di chi si ammala, ma non è paura di morire, ma di cosa lasciare a chi resta. Parliamo di migliaia di persone in tutto il Paese, malgrado non ci siano ad oggi studi certi che ci dicano esattamente quante persone si sono ammalate. Fino a prima del caso di Francesco Paolo non avevamo ottenuto grandi risultati, noi potevamo dare una mano per istruire la causa, ma nei tribunali dovevano andarci gli avvocati». A fare la differenza, stavolta, ci pensa uno dei nomi indicati proprio dal militare pochi giorni prima di morire, quello di Lorenzo Motta, ex militare della marina congedato dopo che gli hanno diagnosticato un linfoma di Hodgkin nel 2005. E che da 14 anni lotta contro i paradossi della burocrazia perché venga riconosciuto una vittima del dovere, status che tarda ancora ad arrivare, malgrado abbia vinto tutti i gradi della giustizia amministrativa. Motta lavora giorno e notte alla causa di Francesco Paolo, ne cura la pratica nei minimi dettagli, forte della sua ultradecennale esperienza tra carte, documenti, ricorsi, vittorie e inspiegabili dinieghi. Grazie a lui Francesco Paolo Giordano il giugno successivo alla sua morte risulta dipendente da cause di servizio e a ottobre è dichiarato vittima del dovere, malgrado all’inizio il comitato di verifica e la direzione generale abbiano dato parere negativo.
«Ho solo fatto in modo che non si andasse incontro a un contenzioso – spiega Motta -. In questi anni ho chiesto a ogni governo di essere ascoltato, solo una persona ha accettato di incontrarmi, l’attuale ministra della Difesa Elisabetta Trenta. Lei è stata la prima a dire che l’uranio impoverito esiste e che ha intenzione di eliminare ogni contenzioso ancora aperto, motivo per cui tante associazioni private non riconosciute che sulle spalle dei malati hanno creato un vero e proprio business la stanno duramente attaccando. Lasciamo lavorare in pace quello Stato che finalmente vuole mettere da parte le chiacchiere e che vuole fatti reali». L’aria, insomma, sembra stia cambiando. Tanto che quella strage silenziosa che ha per colpevole il fin troppo noto uranio impoverito potrebbe non rimanere tanto a lungo ancora nell’ombra. «Penso al quarto reggimento, alla brigata meccanizzata Aosta, a quei militari che oggi sono la mia famiglia: queste eccellenze sono lo Stato – dice infine Francesca -, concentriamoci su questo, e lasciamo da parte tutto quello che al contrario non lo è».