“La solitudine dei numeri primi”, versione Dario Argento

A voler tradurre in immagini un’opera letteraria, le possibilità che la settima arte mette a disposizione del regista di turno sono forse infinite. Saverio Costanzo, figlio d’arte (?), ha scelto di riscrivere completamente il premio Strega 2008 rendendolo, se possibile, più esasperante del romanzo. La solitudine dei numeri primi, scritto dal giovane fisico Paolo Giordano, aveva suscitato animati dibattiti, specie dopo la conquista del premio letterario italiano con la P maiuscola, giacché critici e lettori si erano divisi piuttosto equamente negli opposti schieramenti dei detrattori e degli estimatori convinti, con poche sfumature intermedie. Piccolo capolavoro per alcuni, opera insulsa e sopravvalutata per altri, il cineasta che l’avesse scelto per una trasposizione cinematografica sarebbe comunque partito con il vantaggio non indifferente di potersi ritagliare uno spazio nella polemica preesistente, trasformando con molte probabilità i tanti lettori del libro in curiosi spettatori. Ebbene, se così è stato, abbiamo buone ragioni di credere che i sostenitori dell’opera di Giordano non siano usciti dalle sale poi così soddisfatti. Il regista dell’acclamato Private (2004) e di In memoria di me (2007), infatti, forte di una produzione a budget più alto di ciò cui i suoi precedenti lavori lo avevano probabilmente abituato, e che gli ha permesso di dirigere interpreti come Alba Rohrwacher, Filippo Timi e Isabella Rossellini, ha scritto, sì, la sceneggiatura del film a quattro mani con l’autore del libro, ma già a partire dai titoli di testa (giganti, intensi, alla Almodóvar) e dalla sequenza iniziale, provvista di musica da brivido e perfino di urlo alla Psycho, ci avvisa che la storia che vuole raccontarci è diversa, ha tutto un altro sapore.

Ha tutto un altro sviluppo cronologico, tanto per cominciare: laddove il romanzo aveva cercato di essere lineare pur contando su alcuni flashback esplicativi, il film è un continuo saltare da un anno all’altro nelle vite dei due protagonisti, è una tale sovrapposizione di momenti lontani nel tempo che ci viene da dubitare sull’effettiva possibilità per uno spettatore che non sia stato prima lettore di comprendere appieno molti passaggi. Alice e Mattia, le due anime in pena le cui vite sono state sconvolte da avvenimenti incancellabili, e che dei dolori dell’infanzia portano i pesanti segni nel corpo e nella mente, sono ora bambini, ora adolescenti, ora adulti. Poi ancora adolescenti, e adulti, e bambini, e adulti, e adolescenti. Con una differenza fondamentale: i lunghi e tesi silenzi, tra loro due, e tra loro e il resto del mondo, che nonostante la semplicità di linguaggio Paolo Giordano nel libro aveva a suo modo tentato di caricare di significati, spiegandocene le ragioni e le ripercussioni, nel lungometraggio diventano inspiegabili, cronici, insopportabili. Il disagio esistenziale di due ragazzi del nostro tempo, il loro essere “numeri primi gemelli, soli e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero”, per ragioni che vanno al di là della nostra comprensione (e della comprensione di molti dei lettori del libro, sospettiamo) diventa un horror, un thriller psicologico, un omaggio alle atmosfere dei film di Dario Argento in cui, tanto per citarne qualcuna, il personaggio di Isabella Rossellini, da madre infelice e amareggiata diventa matrigna sospettosa e inquietante, incontri fatti in ospedale vengono spostati al supermercato, e diabolici clown alla It il pagliaccio assassino compaiono misteriosamente durante feste di compleanno per bambini.

Purtroppo l’ottimo cast non è sufficiente. Se ciò che aveva reso il libro tutto sommato gradevole (se non altro sopportabile) – e cioè fluidità, agilità, sobrietà, qualche immagine apprezzabile e metafore evocative – scompare nel nulla, sostituito da pesantezza, misteriosi elementi inventati di sana pianta e fini a se stessi, battute chiave messe in bocca a personaggi secondari e come se non bastasse coperti da assordanti musiche da discoteca, se interi passaggi della vita dei protagonisti vengono saltati (senza che riusciamo nemmeno a giustificare la scelta registica con la scusa dei limiti di durata, visto che d’altra parte sono tante le sequenze inutilmente enfatizzate), e l’unico punto di contatto tra libro e film che ci viene in mente (a parte il titolo) è l’ossessione per i volti e per i corpi sofferenti di un uomo e di una donna fuori dal mondo, ci viene da chiederci perché Costanzo abbia sentito l’esigenza di collegare il suo esercizio di stile al nome di Giordano e alla sua opera. Fosse rimasto indipendente dal romanzo, forse oggi ci sarebbero meno lettori delusi. Almeno loro.


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