Nelle 5252 pagine delle motivazioni del processo sui rapporti tra Stato e mafia c'è spazio anche per la «vicenda Bellini»: l'ex esponente di Avanguardia Nazionale si propose nell'estate del 1992 come intermediario col boss Nino Gioè
La seconda trattativa, tra eversione nera e ‘ndrangheta E quel «mini papello» nelle mani del colonnello Mori
‘Ndrangheta, eversione nera, identità fittizie, infiltrati dentro Cosa nostra, possibili attentati alla Torre di Pisa, uomini delle istituzioni che arrivano a sconfessare i propri sottoposti. Non c’è solo la trattativa tra Stato e mafia o il ruolo di Marcello D’Utri come cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e il governo Berlusconi del ’94 nelle 5252 pagine di motivazioni con le quali i giudici della corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto certificano il dialogo tra pezzi delle istituzioni e della criminalità organizzata, avvenuto nei primi anni ’90. Ma nel grande quadro c’è spazio anche per tasselli più piccoli ma non per questo meno significativi. Come quella che i giudici definiscono la «vicenda Bellini» e avvenuta nell’estate del 1992, proprio mentre il boss corleonese Totò Riina rispondeva alle sollecitazioni dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino.
La figura chiave in questo caso è Paolo Bellini, che porta avanti un «tentativo di trattativa tra i carabinieri e le cosche mafiose». Ma chi è Bellini, da dove spunta e come diventa credibile allo stesso tempo sia per le forze dell’ordine che per gli uomini d’onore? Per caso, verrebbe da dire, per una serie di coincidenze e casi fortuiti che si sommano. Un’informativa del 1994 della Direzione Investigativa Antimafia lo definisce «un ambiguo personaggio legato ad ambienti dell’estrema destra eversiva», che dal 1999 diventerà poi un collaboratore di giustizia. Ne ha di storie da raccontare, Bellini. A partire dalla lunga serie di omicidi commessi per conto proprio e per conto della ‘ndragheta, tra gli anni ’70 e gli anni ’80 (tra i quali anche l’uccisione di un militante di Lotta Continua, Alceste Campanile). Tanto che Bellini è costretto a rifugiarsi all’estero, con l’appoggio di Avanguardia Nazionale che gli fornisce un passaporto falso. Al ritorno in Italia il criminale di Reggio Emilia viene nuovamente arrestato poco dopo per il trafugamento di alcune opere d’arte. Intanto ha assunto una nuova identità, legata al periodo di latitanza in Brasile: al carcere di Sciacca, sotto il falso nome di Roberto Da Silva, incontra il boss di Altofonte Antonino Gioè, detto Nino. «Tutti gli portavano rispetto particolare» riferisce al pubblico ministero Roberto Tartaglia nel corso di un interrogatorio. Tra i due scatta subito una simpatia, specie dopo una partita a ping pong in cui Da Silvia, alias Bellini, osa battere il temuto padrino palermitano. Che proprio per questo motivo gli riconosce di non essere «un leccaculo».
Dopo il periodo di detenzione per dieci anni i due si perdono di vista. Ma nel dicembre del 1991 Bellini torna in Sicilia per recuperare alcuni crediti (circa tre miliardi di lire) e pensa di rivolgersi proprio all’amico boss. Sempre in quel periodo l’ex esponente di Avanguardia Nazionale viene a sua volta contattato dal maresciallo dei carabinieri Roberto Tempesta, del nucleo tutela patrimonio artistico, che gli chiede sostegno per rintracciare alcune opere d’arte trafugate alla Pinacoteca di Modena. Il 1992, intanto, è l’anno delle stragi Falcone e Borsellino. Bellini racconta che la ferocia e la potenza con la quale la mafia uccide i due magistrati lo sconvolgono. Ed è per questo che avrebbe proposto al maresciallo Tempesta di «infiltrarsi dentro Cosa nostra». L’ufficiale, sempre secondo il racconto di Bellini, non dà subito il suo assenso ma afferma di doverne parlare «con l’allora colonnello Mori». Proprio quel Mario Mori, ex generale del Ros, che è stato condannato dai giudici in primo grado a 12 anni per “violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”. Il fascista emiliano, sempre nella versione fornita al pm Tartaglia, riceve l’ok da Mori e si rivolge al suo contatto nella mafia palermitana, vale a dire Nino Gioè.
Il quale al secondo incontro «gli aveva consegnato un foglio con alcuni nomi di soggetti ai quali far avere gli arresti domiciliari o ospedalieri». Sono nomi che Bellini consegna al maresciallo Tempesta e che, nella deposizione, fanno sobbalzare l’ufficiale dei carabinieri. Perchè sono nomi importanti: sono quelli di Luciano Liggio, di Pippo Calò, di Bernardo Brusca (padre di Giovanni). I militari dell’arma sanno che non possono sbilanciarsi, e tentano di prendere tempo. «Gioè si era lamentato della poca serietà dei suoi interlocutori istituzionali e aveva fatto uncenno a un possibile attentato nei confronti della Torre di Pisa» scrivono i giudici. L’ipotesi di scambio tra le opere d’arte e gli arresti ospedalieri va avanti fino alla fine del 1992, ma si arena a dicembre dopo un mancato incontro al Motel Agip.
Quanto c’è di vero e di presunto in questa storia? I giudici scrivono che «gli elementi raccolti non hanno sicuramente consentito una compiuta ricostruzione dell’intera vicenda», anche per i contrasti su alcuni punti tra le dichiarazioni del maresciallo Tempesta e «quelle, rimaste senza contraddittorio, dell’imputato Mori». L’ufficiale del Ros infatti in alcuni casi smentisce categoricamente le ricostruzioni del maresciallo Tempesta, come l’ipotesi di attentati al patrimonio culturale italiano avanzata da Gioè. Quest’ultimo, d’altra parte, «si è suicidato prima di potere essere interrogato (anche) su tali fatti». Resta la conferma del fatto che «l’iniziativa partita dal Bellini e la proposta di operare per ottenere benefici per importanti esponenti del’associazione mafiosa anche vicina ai corleonesi fu portata direttamente alla conoscenza di Riina e Bagarella da Brusca e che Riina autorizzò l’eventuale scambio».
La corte d’assise riserva poi parole molto forti nei confronti dell’operato del colonnello Mori, definendo la sua condotta «non soltanto opaca ma addirittura contra legem»: l’ufficiale del Ros avrebbe evitato «di lasciare qualsia traccia documentale della vicenda», sia dissuadendo il maresciallo Tempesta dal redigere una relazione di servizio «sia soprattutto trattenendo per sè un documento che certamente costituiva corpo di reato». Vale a dire quel foglio, scritto secondo Bellini direttamente da Nino Gioè, coi nomi dei boss mafiosi di cui si intendeva alleggerire le condanne. Un «mini papello», come lo definiscono gli stessi giudici, di cui si sarebbe potuto eseguire un accertamento grafico e che «avrebbe consentito di disarticolare già nell’estate del 1992 una delle famiglie mafiose (quella di Altofonte) più vicine e fedeli ai corleonesi, partecipe di efferati crimini già compiuti (la strage di Capaci) e di ulteriori progetti criminosi già allora in cantiere»(come l’attentato all’ex presidente del Senato Pietro Grasso). Di quel foglio Mori ha confermato l’esistenza ma ha affermato di non averlo conservato.