La Rete contro la paura

“La paura, prima della primavera araba, è stata sempre un fattore paralizzante per il mondo arabo. Grazie a Internet, le piattaforme di Facebook e Twitter, cioè la prima rivoluzione informatica in questi paesi, il contratto sociale tra lo Stato e i cittadini è stato riscritto”. Così Ayman Mohyeldin, corrispondente di Al Jazeera English, lo scorso sabato durante l’incontro “Rivoluzione (mediatica?) in Tunisia ed Egitto” al Festival di giornalismo di Perugia. Un incontro organizzato con l’intento di chiarire il ruolo di Al Jazeera (media televisivo arabo) e Al Jazeera Talk (fondato nel 2006 e animato da molti giovani blogger) nelle rivolte arabe dalla Tunisia alla Libia. E di spiegare soprattutto il ruolo dei social network. “Al Jazeera talk è un progetto per il quale trecento volontari hanno scritto e scrivono ciò che succede per le strade dei Paesi in cui vivono. E lo filmano pure. E tutto questo poi lo condividono su Internet attraverso le piattaforme multimediali. Si tratta di una piccola redazione che all’inizio è stata sottovalutata dai governi. E quando il governo egiziano ha bloccato Internet, abbiamo utilizzato la mentalità di Facebook per diffondere ciò che stava accadendo” precisa Ahmed Ashour, direttore di Al Jazeera Talk.

Un giovane progetto che, insieme a quello già preesistente, non si è limitato a trasmettere informazioni, ma è stato parte della primavera araba. “Nel mondo arabo il web è stato il motore di avviamento della rivoluzione. E Al Jazeera possiamo considerarlo il diesel” spiega Ugo Tramballi, giornalista de Il Sole 24 Ore. E continua: “Dobbiamo distinguere Al Jazeera araba da quella occidentale. Dalla prima gli arabi si aspettano cose diverse che da quella composta da giornalisti occidentali”. Tra i partecipanti anche Sami Ben Gharbia, (fuggito dalla Tunisia nel 1998 e attualmente residente nei Paesi Bassi come profugo politico) advocacy director del blog collettivo Global Voices: “Alla rivoluzione non ha contribuito solo internet, ma anche le persone che hanno lottato sul campo sfidando le pallottole della polizia. E molti di loro erano anche attivisti digitali”.  Al dibattito presente anche Gabriella De Simone, giornalista Mediaset, appena tornata da Bengasi, che ha sollecitato una riflessione riguardo alla veridicità delle fonti: “La cosa che ho capito dopo Bengasi è che spesso, per rappresentare un bisogno dimenticato, si corre il rischio di trovarsi in una situazione di contrapposizione di schieramenti in cui la realtà viene schiacciata”. E continua: “Quando ero in Libia ho visto i rivoltosi che affermavano d’essere riusciti a conquistare Brega. Di contro, i colleghi mi dicevano che non era così. C’è bisogno di capire davvero cosa accade. Non bastano i social network per diffondere le notizie. C’è ancora bisogno di qualcuno che va sul luogo per sincerarsi di ciò che sta accadendo”. E proprio perché il sito dà la possibilità alla gente comune di partecipare, attraverso testimonianze video, orali e scritte, alla diffusione delle informazioni, il direttore Ashour ha precisato: “Non pubblichiamo subito. Cerchiamo di confrontare più fonti. Se collimano, trasmettiamo la notizia. Altrimenti no. Per noi la gente rappresenta una fonte importante”.

Una nuova generazione di attivisti arabi quindi, diversa da quella passata. Istruiti e preparati per utilizzare gli strumenti on-line. Ma non tutti, come ci spiega Sami Ben Gharbia: “Non tutti gli attivisti lo fanno. Gli attivisti libici, per esempio, sono più violenti perché non sono preparati come i tunisini e gli egiziani”. Generazione di eroi, pronti a sfidare la morte pur di far sapere al mondo finalmente ciò che accade nei loro Paesi, contrariamente a quanto avveniva prima. Ma allora perché quando arrivano in Italia sui barconi per molti, e anche per alcuni professionisti dell’informazione, diventano un problema? E la domanda che una giornalista presente in sala ha rivolto ai due giornalisti italiani coinvolti nel dibattito. “Si racconta ciò che la gente vuol farsi raccontare. Noi giornalisti siamo clandestini dell’informazione. Tanti però si battono per fare andare avanti l’informazione” spiega la De Simone. E conclude: “E’ l’Italia che avrebbe bisogno di una primavera. Una primavera di informazione”.


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