La posta in gioco. Dialogo sul resistibile declino dell’università

Il gruppo universitario “Intrecci” ha organizzato lo scorso 28 marzo a Siena, presso la Saletta dei Mutilati un incontro-dialogo sullo stato presente dell’università italiana, sul suo “resistibile declino”. Tre i relatori invitati: R. Luperini (Università di Siena), Giovanni Orlandini (Università di Siena) e Gigi Roggero (Università della Calabria). Quest’ultimo è autore di un libro sui “movimenti contro l’università azienda” dal titolo “Intelligenze fuggitive”.

Proprio Roggero ha dato inizio alla serie degli interventi, mettendo sul piatto alcuni dei grossi nodi in questione. Primo punto: la precarietà. All’Università di Milano due corsi su tre sono affidati a figure non di ruolo. All’Università di Bologna a fronte di meno di 3000 docenti strutturati (cioè di prima e seconda fascia e ricercatori), ci sono circa 2500 professori a contratto, 600 assegnisti, 680 borsisti, quasi 1800 dottorandi che spesso fanno attività didattica. All’Università della Calabria gli strutturati sono 627, ma il numero di contrattisti e dottorandi supera le mille e cento unità. Il dato è geograficamente omogeneo (le università citate si trovano al Nord al Centro e al Sud). Insomma è un fatto che senza il lavoro dei precari l’università non  potrebbe più andare avanti.

Secondo punto: il nesso fra riforma universitaria e precarizzazione va contestualizzato nell’ambito europeo disegnato dalla Conferenza di Bologna del 1999. Qui è cominciato quel processo di costruzione  di uno spazio europeo dell’istruzione superiore, che ha i suoi perni nel mutamento della struttura curricolare (il 3+2) e nell’impiego del sistema dei crediti.

Terzo punto: la “liceizzazione” dell’Università ovvero il processo di dequalificazione della formazione superiore. Aumenta il numero di diplomati e laureati, ma quelle stesse qualifiche perdono valore in sé, come partecipazione ad un reale processo formativo, e valore per il mercato del lavoro. Ciò significa che la selezione degli studenti avviene non più tanto attraverso l’esclusione dall’ingresso all’università, quanto attraverso meccanismi di inclusione differenziale, spostati sempre più verso l’alto, nei percorsi post-laurea.

Quarto e ultimo punto: la mancanza di una formazione alla complessità e l’indirizzamento precoce verso l’iperspecializzazione sono fenomeni in contraddizione con la mobilità e la non serialità richieste dal lavoro “postfordista”. La rapida obsolescenza dei saperi stride con la flessibilità richiesta ai nuovi lavoratori.

Qui però chi scrive si permette di obiettare subito che la pillolizzazione e la proliferazione di microsaperi scollegati l’uno dall’altro e da una visione comlplessiva della società e degli uomini è al contrario strettamente funzionale alla costruzione di un nuovo tipo di lavoratore della conoscenza flessibile, pronto a saltare da un lavoro ad un altro e disponibile al long life learning, o apprendimento per tutta la vita (vedi il “Libro bianco” dell’UE sull’Educazione e la formazione del 1995). Dove beninteso si tratterebbe di imparare ad aggiornarsi di continuo e principalmente sulle innovazioni dei mezzi tecnologici, divenuti intanto i veri prestatori (privati) di “servizi educativi” (è illuminante a riguardo la lettura di R. Renzetti, “Le mani sulla scuola” nel sito www.fisicamente.net). Si dovrà apprendere saperi informatici in continua mutazione e flessibili. I mezzi così saranno fini (ma non era l’uomo a dover essere fine in sé, secondo il vecchio universalismo kantiano?). I saperi rischiano di divenire “precari” e alienati, cioè fatti su misura per uomini che devono essere consumatori di “servizi educativi” (ma quanta ideologia si annida già nella scelta delle parole?) e non più cittadini.

Ritorniamo al dibattito. Ha fatto seguito a Roggero l’intervento del prof. Luperini, il quale ha collocato i processi di trasformazione dell’università in quelli più ampi di cambiamento dell’intera società, che stanno progressivamente consegnando al Mercato settori essenziali della vita civile: sanità, educazione, magistratura. Ma questa idea rientra nell’ambito della più pericolosa delle utopie: l’utopia del capitalismo, il quale pretende di assoggettare ai criteri del profitto tutti gli ambiti sociali. L’università subisce dolorosamente questa offensiva privatistica, assistendo impotente ad una smisurata crescita di moduli ed esami, dettata da un iperproduttivismo insensato, che snatura il sapere e svilisce il lavoro degli studenti.

Il terzo intervento, quello del prof. Orlandini, è stato centrato su una disamina molto precisa della situazione giuridica dei lavoratori precari dell’università, impastoiati nel dedalo di distinzioni e formule che nascondono il dato essenziale: non ci sarà più sicurezza economica per chi ha, malauguratamente, deciso di dedicare allo studio una fetta grossa della propria vita. Per poter seguire con attenzione il percorso informatissimo che Orlandini ha disegnato potrà essere utile leggere il suo intervento. Il Gruppo “Intrecci” ha infatti registrato l’intero incontro e procederà in breve alla sbobinatura del materiale conservato ed alla pubblicazione dello stesso sul sito della rivista “L’Ospite Ingrato” (per informazioni: intrecci2005@yahoo.it).

Il dibattito seguente è stato molto acceso. Si è discusso, tra l’altro, sull’eredità che il ‘68 può o non può trasmettere ai movimenti studenteschi di oggi; sulla necessità di iniziare un nuovo ciclo di lotte per contrastare la precarizzazione delle nostre vite, ben sapendo che una vera e giusta lotta può iniziare solo nel momento in cui si ha la capacità di riconoscere con chiarezza il vero nemico con cui si combatte; e sul fatto che oggi le contraddizioni sociali stanno venendo a galla con sempre maggiore virulenza e che il sapere si trova a doversi difendere dagli attacchi non del lavoro, ma del capitale (cosa ben diversa), cioè del tipo di rapporti di produzione che organizzano, in questa fase storica, il lavoro.

 Alla fine Roggero ha concluso con lucidità ed efficacia l’incontro dicendo che bisogna prima di tutto liberarsi dall’onnipervasivo senso di sconfitta che ha vessato le ultime generazioni. E che è possibile lavorare ora e qui per una nuova università. È possibile ad esempio cominciare a dar vita a seminari autogestiti in cui si sperimenti una prassi alternativa di costruzione e trasmissione dei saperi; è possibile cioè far deflagrare la contraddizione fra l’eccedente ricchezza dei saperi e gli angusti criteri quantitativi in cui oggi i nuovi mandarini del Profitto cercano di ingabbiarla. In una parola è possibile, anzi necessario ed urgente, ricostruire un nuovo spazio pubblico all’interno dell’università. Il guanto è gettato, la sfida lanciata. Chi sentirà la responsabilità e il dovere di raccoglierla?


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