Step1 intervista lo scrittore ed editorialista palermitano che nel 1998 ha fondato Teledurruti, webtv indipendente, famosa per i suoi contenuti surreali, dissacranti e fuori dal comune, nata dall'esigenza di parlare in libertà di tutto, anche degli stronzi
La poetica mediatica di Fulvio Abbate
Dissacrante, surreale, divertente, disarmante, spesso ai limiti del nonsense, ma libera dai condizionamenti del potere e “mediaticamente autosufficiente”. È Teledurruti, la televisione “poetica” e “monolocale” sul web di Fulvio Abbate, scrittore, critico ed editorialista palermitano, che nel 1998 ha dato vita ad una trasmissione televisiva in onda fino al 2003 su TeleAmbiente e migrata su internet a partire dal 2007. Una webcam, riflessioni filosofiche, tematiche sui generis, analisi dell’attualità e della politica, e tanta ironia, hanno imbastito negli anni un successo sempre più grande per un format nato dall’esigenza del suo fondatore di potersi esprimere senza censure, creando contenuti che piacessero almeno a una persona… il comunicatore medesimo. Incontrato al Festival del Giornalismo di Perugia dove è stato ospite di un incontro sui contenuti della TV nel nostro paese, Abbate si è concesso a Step1 per un’intervista.
Da dove è nata l’idea di creare una televisione così dissacrante, spesso al limite del surreale. Cosa voleva trasmettere al suo pubblico?
Io sono uno scrittore e l’idea è nata da un mio romanzo, che si intitola appunto Teledurruti, la storia di un figurante televisivo che si inventa una televisioncina, con l’obbiettivo di rendere felice almeno un telespettatore sulla faccia della terra: sé stesso. Poi, questo progetto è sfociato nella nascita di una trasmissione in una televisione privata del centro Italia, andata in onda dal 1998 al 2003, finché, nel 2007, la rete non mi ha dato la possibilità di spostarmi su internet. Ma Teledurruti nasce anche per rendermi mediaticamente autosufficiente.
In che senso?
Se io volessi dire che Ingrid Betancourt è una stronza, mi metto davanti alla mia webcam e lo dico. Molto prima che la Betancourt fosse liberata dalla prigionia, sull’Unità, giornale per il quale scrivevo, mi fu impedito di pubblicare un mio editoriale in cui sostenevo questa tesi. Stessa storia anche sul Foglio, su cui avevo una rubrica. Teledurruti, invece, mi permette di farlo.
Cos’è per lei Teledurruti?
È la televisione di uno scrittore che ambisce ad essere poetica e situazionista, anche se ormai può sembrare banale pronunciare questa parola. Sono riuscito in questa mia avventura. In qualche anno, Teledurruti è diventato un oggetto di attenzione mediatica. Posso ritenermi felice: adesso c’ho un mio Canale5.
Ma quindi l’esigenza di dar vita ad una TV è nata anche dal suo non essere soddisfatto dei contenuti che ci offrono oggi i canali televisivi tradizionali?
Anche, ma soprattutto, essendo la mia una televisione sui generis, in cui io veramente faccio di tutto, mi ha permesso di mettere al mondo un altro polo televisivo. Una televisione laica, libertaria, poetica, dove sia possibile mostrare mia madre al cimitero, la tomba di mio padre, dove sia possibile fare degli editoriali, o parlare facendo uso del turpiloquio liberatorio. Insomma, dove tutto sia possibile. In sostanza si tratta di un laboratorio poetico e mediatico.
Perché ha scelto proprio il nome Teledurruti?
Per rendere omaggio ad un condottiero anarchico spagnolo scomparso nel 1936, Buenaventura Durruti.
E cosa significa televisione “monolocale”?
L’idea è nata dal concetto di televisione locale. Inizialmente volevo chiamarla Televisione formato fototessera, ma poi un giorno mi è venuta in mente quasi per caso la parola monolocale: un monolocale che si apre al mondo.
Quali sono le tematiche che le piace di più affrontare e dibattere all’interno delle sue trasmissioni?
Diciamo che ci sono due ordini di idee. C’è la riflessione sulla contingenza politica, ad esempio per raccontare la miseria del centro sinistra oppure l’orrore di Berlusconi. E poi invece c’è un altro tipo di intervento, molto più filosofico, come possono essere le riflessioni sul tempo, sulla memoria, sulla fotografia.
Può farci qualche esempio?
Un giorno ho mostrato mia madre dal balcone. Il balcone è l’unica foto esterna che la gente fa senza muoversi da casa, e lì riflettevo sull’eternità della fotografia. Però anche le cose più paradossali e bizzarre arrivano al pubblico di Teledurruti e questa è una vittoria.
Crede quindi che anche i contenuti più al limite del nonsense riescano ad essere percepiti correttamente dal pubblico? Che tipo di risposte ha ottenuto in questi anni?
Sì, assolutamente, proprio perché è una televisione dove tutto è possibile. Non sembra che ci siano argomenti che sono rimasti oscuri. Anche quando parlo di sesso, non ho mai visto nessuno commentare “Dio che orrore” o “Che schifo”. Ad esempio, una volta ho fatto una puntata in cui raccontavo di come può essere meraviglioso quando una donna masturba un uomo. Oppure, un’altra cosa di cui vado orgoglioso è un seminario sullo stronzo. Chi è lo stronzo? Non puoi dirmi lo stronzo è Berlusconi o D’Alema, o l’approfittatore, mi devi sostanziare dal punto di vista filosofico chi è esattamente lo stronzo, ed è una delle cose più difficili da definire.
Le è capitato mai di ricevere delle critiche particolarmente aspre per le sue trasmissioni?
Sai, è una cosa strana: ogni tanto arriva uno e mi dice “Sei un mentecatto”, ma magari la stessa persona, qualche mese dopo, mi fa i complimenti. Quando si crea un meccanismo di fidelizzazione, è come se il pubblico si sentisse tradito se fai qualcosa che non corrisponde al loro sentire.
Qual è il rapporto tra i contenuti di Teledurruti e il suo background politico?
Una cosa a cui tengo e che ho sottolineato nel corso del tempo è che nessuno deve pensare che io sia più di sinistra, perché in nome dell’appartenenza comune si pensa di potermi chiedere una delega in bianco. Quel tempo è finito per sempre. Io non mi sento neanche anarchico, se mi sentissi tale dovrei in qualche modo fare i conti con il settarismo dell’anarchia. Mi sento un artista, uno scrittore che si è dotato di uno strumento di agitazione poetica e mediatica.
Nel 1998 la casa editrice Bompiani le ha rifiutato la pubblicazione del romanzo da cui poi è nata Teledurruti. Può raccontarci la vicenda?
Nel 1998, io avevo pubblicato già due romanzi con Bompiani, e sarebbe dovuto uscire Teledurruti che avevo già consegnato. Poi, come spesso accade, hanno ritenuto che le vendite dei miei precedenti romanzi non fossero soddisfacenti e mi hanno comunicato che Teledurruti non sarebbe più uscito. È stato un comportamento che io ho trovato discutibile perché un editore, prima ancora di essere un imprenditore che guarda gli estratti conto, ha il dovere di fare crescere gli autori.
Ma il libro è uscito comunque.
Sì, nel 2003, con Baldini e Castoldi. Giustizia è stata fatta. Io ho dimostrato di saper trasformare un romanzo in un’opera d’arte vivente e questo è quello che conta.
Si ritiene soddisfatto della riuscita del suo progetto?
Sì. Ormai si parla spessissimo di Teledurruti. C’è addirittura qualcuno che ha fatto nascere delle proprie emittenti in rete prendendo ispirazione dalla mia. Sull’argomento ho scritto anche un libro che si chiama “Manuale italiano di sopravvivenza. Come fare una televisione monolocale e vivere felici in un paese perduto”, pubblicato dall’editore Cooper, una sorta di vademecum di sopravvivenza mediatica, politica ed esistenziale.