Una cosa ha contraddistinto il dibattito pubblico sulla riforma dell’università, specie quello cui si può assistere nei massmedia ed in primis alla televisione: l’ignoratio elenchi (che, tradotto approssimativamente per chi ritiene la cultura qualcosa di commestibile, significa l’ignoranza di ciò di cui si parla). Ed è una costante che a queste trasmissioni vengano di solito invitati o politici che hanno solo un’informazione superficiale su questi argomenti e finiscono per ripetere slogan sentiti altrove, o rappresentanti del mondo universitario che di solito provengono da università private: assai di rado un docente informato delle università pubbliche, quelle maggiormente colpite dalle riforme universitarie di questi ultimi anni e maggiormente interessati dalla riforma da poco approvata.
È quanto accade nel corso del dibattito sull’università in coda all’ultima trasmissione di Ballarò del 12 gennaio. Un piccolo esempio (lasciando da parte la solita demagogia governativa contro i “baroni”): la presenza di esterni e/o di rappresentanti delle aziende private all’interno del Consiglio di Amministrazione così come ridisegnato dalla riforma. Tutti – opposizione, maggioranza (rappresentata autorevolmente dal ministro Gelmini) e lo stesso conduttore Floris – hanno dato per scontato (ha cominciato Di Pietro, ha ribadito Floris, nessuno ha rettificato) che nel CdA la legge prevede la presenza di tre soggetti privati.
Il fatto è che la legge non dice affatto questo. Leggiamola, per evitare equivoci: «composizione del consiglio di amministrazione nel numero massimo di undici componenti, inclusi il rettore, componente di diritto, ed una rappresentanza elettiva degli studenti; […] non appartenenza ai ruoli dell’ateneo, a decorrere dai tre anni precedenti alla designazione e per tutta la durata dell’incarico, di un numero di consiglieri non inferiore a tre nel caso in cui il consiglio di amministrazione sia composto da undici membri […]» (art. 2, c. 1, lett. i).
La legge afferma dunque che almeno tre dei suoi membri non debbono appartenere ai ruoli dell’ateneo da almeno tre anni; ciò significa che anche tutti i membri del CdA possono essere costituiti da personalità esterne, tranne il rettore e la rappresentanza studentesca. In considerazione del fatto che quest’ultima è costituita da due membri (in base alla legge richiamata al comma 2, lettera h, che la fissa al 15%), restano 8 membri. E in merito a questi ultimi, il potere di deciderne la composizione è lasciato ai singoli statuti delle università, da modificare in accordo a quanto previsto dall’art. 2, c. 5. I nuovi statuti potrebbero stabilire di avere – al limite – una composizione “privatista/aziendale/politica” formata da rettore (anche un ordinario di altro ateneo), due studenti e 8 membri esterni (rappresentanti di aziende o di enti pubblici, come regione, provincia o altro); oppure (altro caso limite) una composizione accademica “baronale” con rettore, due studenti, 3 membri esterni scelti tra ordinari di altra università (la norma prescrive che non appartengano all’ateneo, non che non siano professori universitari) o tra ex docenti dello stesso ateneo già in pensione da tre anni, e 5 ordinari di ruolo nell’ateneo. Insomma, sarà ciascuna università a scrivere il proprio destino: potrà decidere di continuare la propria “autoreferenzialità”, tanto criticata, con un CdA tutto accademico, o potrà decidere di “aprirsi” (in un’ottica ottimistica) o “mettersi in vendita” al miglior offerente, in cambio di finanziamenti e agevolazioni (nella visione di un pessimista). Stando alle esperinze passate di “apertura al territorio”, con ingresso di rappresentanti delle istituzioni e membri designati dai partiti nei CdA delle varie aziende (si vedano le le unità sanitarie locali), l’ottimismo della volontà vira decisamente verso il pessimismo della ragione.
Questo post è stato pubblicato il 13-1-2011 sul blog “Non si può stare sempre a guardare”, con il titolo “Il Ballarò dell’ignoranza”.
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