La mafia dei Nebrodi vista da Cosa nostra

Durante gli anni Ottanta, nei Nebrodi (intendendo per Nebrodi o Caronie la parte occidentale della provincia di Messina, quella che si estende per circa 70 km tra i Peloritani e le Madonie) un enorme flusso di denaro pubblico investe il settore edilizio, decine di miliardi di vecchie lire vengono sperperati in opere spesso monumentali, inutili e in qualche caso persino dannose; sono gli anni dell?Intervento Straordinario nel Mezzogiorno” basato su una strategia che, come dice il Castronovo, “s’era andata trasformando lungo la strada in una sequela di misure prevalentemente di tipo erogatorio, “a pioggia” o a “fondo perduto”, che avevano finito col frantumare e polverizzare la spesa pubblica a seconda degli interessi e del grado di pressione politica delle diverse zone e dei singoli collegi elettorali”.

A questo sistema, che aveva dirottato gran parte delle risorse pubbliche verso finalità particolaristiche e assistenziali che hanno impedito alla sana imprenditoria di svilupparsi, andavano collegati anche i fenomeni sempre più inquietanti di degrado delle istituzioni e di crescita della criminalità organizzata e della mafia.

Importante a questo proposito la dichiarazione di un pentito, Calogero Marotta (figlio di Salvatore Marotta, capo dell?omonimo clan, condannato con sentenza del Tribunale di Patti del 21 luglio 1992, per associazione a delinquere di tipo mafioso) laddove afferma che “(…) nel 1989, prima ancora dello scoppio della guerra di mafia tra le opposte cosche tortoriciane che ha finito con insanguinare l’intero territorio nebroideo, mio padre ed io eravamo ancora fuori da ogni schieramento criminale. Ciò perché la nostra attività di venditori di pesce ci permetteva di vivere lavorando onestamente. Le uniche azioni malavitose erano legate a fatti sporadici e comunque esulavano da una logica criminale di gruppo. Tuttavia, l’affacciarsi di diverse imprese sulla zona di Sant’Agata Militello che avevano vinto grosse gare di appalto fece crescere sul nostro Comune l?interesse di diversi gruppi criminali (…)”.

Quindi, paradossalmente, questo segmento importante e consistente di risorse pubbliche fece la fortuna della mafia che, quando arrivò a controllare il territorio, si pose e si impose come una specie di “anti-Stato” o di “Stato nello Stato”.

Già su Capo d’Orlando si erano verificati gravi casi di estorsione; era cominciata quella fase, comune a tutte le realtà dove la mafia prova a penetrare, in cui si organizza un “disordine” da tenere sotto controllo, creando quell’insicurezza di cui poi usufruire: tra l’estortore e il protettore una specie di gioco delle parti. Il pentito Tommaso Buscetta descrive, in maniera assai efficace, l?importanza di questo aspetto: “Quando mi presento da lei, lei deve sentire il mio peso e deve sentirlo velatamente. Io non verrò mai a minacciarla, verrò sempre sorridente e lei sa che dietro a quel sorriso c’è una minaccia che incombe sulla sua testa. Io non verrò a dirle: le farò questo. Se lei mi capisce, bene; se no, lei soffrirà le conseguenze.”

Le affermazioni di Buscetta dimostrano anche come il racket rappresenti per le cosche un momento di selezione, di addestramento per la futura classe dirigente mafiosa, il tirocinio criminale per le nuove leve: per scalare le gerarchie criminali non basta uccidere, è necessario saper intimidire, e l?estorsione” è l’attività intimidatoria per eccellenza. E’ per queste ragioni che il racket delle estorsioni, il pizzo, oltre ad essere la più antica attività mafiosa, ha mantenuto caratteri costanti nel tempo.

In passato, in provincia di Messina non era stata mai accertata, con sentenza passata in giudicato, l’esistenza di associazioni a delinquere di stampo mafioso poiché, anche quando era stato contestato l’art. 416 bis, tale contestazione non aveva retto nei successivi gradi di giudizio.

Il caso più clamoroso è costituito dal primo processo al clan capeggiato da Pino Chiofalo, chiamato poi “Mare Nostrum”. Questo processo ebbe certamente parecchie diramazioni e subìto diverse “fermate” prima di pervenire ad arresti e condanne; ma il personaggio in assoluto più importante dell’intero processo è rappresentato dallo stesso Chiofalo, sia dal punto di vista della sua storia criminale che per la sua storia da pentito.

I giudici della Corte di Appello di Messina, nel tentativo di tracciare un profilo della sua personalità, lo hanno accostato alla figura di cui parla lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger, definita “il perdente radicale”, sottolineando che a differenza del vinto, che si rassegna alla propria sorte ma si prepara alla prossima tenzone, il perdente radicale “si ritrae in disparte, diventa invisibile, coltiva il suo fantasma, raduna le proprie energie e attende la propria ora”, si sente vittima di “aggressori strapotenti senza nome”, e trova via di uscita alle sue frustrazioni attraverso “la fusione di distruzione e autodistruzione, di aggressione e autoaggressione” compiendo gesti che gli consentano “di trionfare sugli altri, in quanto li annienta”, siano o meno questi ultimi i responsabili della sua sconfitta.

La sua carriera criminale inizia nei primi anni del Settanta. Dopo aver soggiornato e peregrinato in diversi istituti di pena, per condanne collegate a fatti di ‘ndrangheta, viene scarcerato il 24 marzo 1981 con divieto di soggiorno in Sicilia e in Calabria e si stabilisce a Napoli, dove aderisce a un gruppo organizzato denominato la “Nuova Famiglia”, contrapposto al clan di Raffaele Cutolo. Riesce comunque a tornare nel giugno 1981 a Terme Vigliatore, piccolo Comune attaccato al territorio di Barcellona Pozzo di Gotto, e ha un preciso progetto: costruire un suo gruppo, un’associazione mafiosa sotto il suo comando per acquisire l’assoluto dominio del territorio di Barcellona e del suo hinterland, estromettendo la presenza mafiosa esterna che fin dagli anni 60, appoggiata da personaggi locali, operava indisturbata.

Accadeva infatti che le grandi imprese catanesi presenti in zona erano sottoposte a protezione da Benedetto Santapaola, detto Nitto, il quale aveva garantito loro fino a quel momento il “passaggio indisturbato nella zona” tramite la protezione locale garantita da un suo uomo, Girolamo Petretta. Quest’ultimo, forte dei suoi rapporti con Santapaola e con la mafia palermitana, aveva assunto nella gestione dei fenomeni economici locali una posizione di supremazia, instaurando un sistema d’intermediazione secondo cui le grosse imprese impegnate nell’esecuzione di opere pubbliche dovevano avvalersi di imprese locali segnalate dallo stesso Petretta dietro l?imposizione di un “pizzo”. In tal modo le grandi imprese, sottoposte alla “protezione” delle organizzazioni dell?area palermitana o catanese, riuscivano a subappaltare lavori a prezzi inferiori rispetto a quelli di mercato e si sottraevano al pagamento del pizzo, che invece era corrisposto dai subappaltatori locali.

Di contro, il “Clan Chiofalo” che si era venuto a costituire, oltre ad una ferrea organizzazione basata sulla ‘ndrina (termine mutuato dalla ‘ndrangheta calabrese con cui il Chiofalo aveva contatti, che indica i nuclei delle “famiglie” mafiose a livello comunale) ed un preciso programma finalizzato agli “affari”, si propose una mirata strategia d’azione diversa da quella della mafia storica. E’ proprio il Chiofalo che, ripercorrendo la cruenta storia del clan, ci dice come il “corpo di società attiva” creato nel 1981 mirava ad imporre alle grandi imprese appaltatrici l’obbligo di subappaltare l?intero lotto dei lavori alle imprese locali aderenti al “consorzio”, sul quale le ditte subappaltatrici avrebbero dovuto corrispondere una tangente all’organizzazione.

Il Chiofalo, dopo aver sottolineato che alcuni si erano addirittura offerti spontaneamente, dice: “Tutti coloro che fecero parte del consorzio versarono un contributo, chi di 50, chi di 100 e quant’altro poteva versare, (…) ma voglio dirle di più, tanti di loro sono venuti loro stessi a offrirsi a far parte del consorzio, perché si era sparsa questa voce, non c’era bisogno di andare a cercare le persone, perché il consorzio significava avere in esclusiva il monopolio di tutti gli appalti e sub appalti di Messina e provincia, compresa zone montuose e quant’altro, senza alcuna presenza di chicchessia, palermitani o catanesi, o calabresi (…). Questa era la politica nostra e a questo si era arrivati comunque.”

Il “contributo” versato nelle ‘casse’ dell’organizzazione veniva utilizzato per le esigenze del clan (ogni appartenente al clan aveva un “tot” al mese, si pagavano gli avvocati, si mantenevano le famiglie, c’era una contabilità e quindi c’era una distribuzione equa, diciamo, dell?introito al clan) e per gli investimenti nei cantieri di riferimento della cosca, come riportato nella Sentenza Corte d’Appello di Messina.

Accadde che il 30 ottobre 1986 cinque uomini incappucciati ed armati di fucile si introducevano, minacciando il guardiano e provocando danni nel cantiere della “Siciliana Calcestruzzi s.r.l.”, un’azienda che produceva a Ficarra inerti per costruzioni e conglomerati bituminosi e cementizi, anche in favore delle imprese impegnate nei lavori per il raddoppio della ferrovia. A muoversi con spavalderia è il clan Chiofalo ritenendo di controllare attraverso le “famiglie” tortoriciane, ancora unite, il territorio del comprensorio di Capo d?Orlando-Tortorici. (foto a sinistra tratta damafiazero.blogspot.com)

Più volte Pippo Cipriano (recentemente scomparso) capo ‘ndrina di Brolo, territorio che fa un tutt’uno con Ficarra, Comune in cui il clan Chiofalo è ben radicato e ha potuto contare sulla sua fedelissima presenza, aveva parlato con i responsabili dell?impresa, ma i pagamenti non arrivavano. Cosi per “sollecitare” il pagamento, Chiofalo aveva dato incarico al Galati Giordano Orlando di porre in essere un?irruzione nel cantiere per “fare del danno”. Come al solito, dopo l?avvertimento”, il titolare della “Siciliana Calcestruzzi s.r.l.”, l?imprenditore brolese Vincenzo Agnello, divenne più disponibile accettando di incontrare il capo, Pino Chiofalo.

L?accordo raggiunto prevedeva il pagamento di una cifra una tantum iniziale di lire 50 milioni, da versare entro pochi giorni nelle mani di Giuseppe Cipriano e di un fisso mensile di lire 5 milioni da corrispondere tramite il Galati Giordano Orlando, che in quell’occasione Chiofalo aveva indicato all’Agnello come riscossore della tangente e come persona da assumere nel cantiere. Nell’accordo era inoltre prevista l’assunzione fittizia, presso un altro cantiere che l’impresa aveva aperto nel comune di Tortorici, di Sebastiano Bontempo Scavo, detto “Piricoco” che “faceva la presenza per farsi notare dagli operai e poi andava via ma in una settimana non arrivava proprio a due giorni di lavoro e risultava che presenziava e che veniva mensilmente pagato”.

Il salto di qualità si ebbe quando Il raggruppamento di imprese I.R.A. (Industrie Riunite Associate), costituito delle imprese Costanzo e Graci di Catania, stava realizzando lavori pubblici nella zona di Barcellona, per un importo a base d?asta di oltre 56 miliardi di lire. La notte del 12 dicembre 1987, nonostante che i titolari delle imprese consorziate fossero protetti dal boss catanese Nitto Santapaola, venivano compiuti due gravi atti intimidatori nei cantieri in cui lavoravano circa 400 operai, ad opera di Pino Chiofalo. Galati Giordano Orlando, ricostruì i fatti quando si “pentì” sostenendo che il Chiofalo, durante la sua latitanza si era sentito trascurato dalla “vecchia mafia” che proteggeva le ditte catanesi e che, quindi, era arrivato alla determinazione di fare “capire” chi comandava ora a Barcellona Pozzo di Gotto. (foto a sinistra tratta da radiostereosantagata.blogspot.com)

Il piano architettato dal Chiofalo consisteva nella eliminazione di tutti gli esponenti della cosiddetta “vecchia mafia” barcellonese per costringere le imprese catanesi dei “Cavalieri del lavoro”, impegnate nei lavori di costruzione del doppio binario e del completamento dell?autostrada Messina-Palermo, a mettersi sotto la protezione del suo clan.

Eliminati nel giro di poco tempo tutti i soggetti che potevano rappresentare un ostacolo alla realizzazione del “progetto”, il gruppo Chiofalo tenta in tutti i modi di aprire la trattativa con il Consorzio I.R.A. Basta poco a Chiofalo e al suo gruppo per capire che in questa trattativa “l’altra parte” non era l’I.R.A., ma il boss catanese, Santapaola.

Nitto Santapaola ha un mandato pieno da parte delle grandi imprese, di cui sono titolari i tre “Cavalieri del lavoro” di Catania (Graci, Costanzo e Rendo), a trattare con la mafia locale le condizioni per lavorare senza essere “disturbati”. Egli, con brutale concretezza, tratta, fa accordi, dispone di risorse e si prepara a “eliminare” la concorrenza come farebbe un qualsiasi amministratore, delegato alla gestione dell?impresa.

Solo che lui è Nitto Santapaola (foto a sinistra tratta da facebook), uomo d?onore, capo della mafia catanese, autorevole componente di Cosa nostra. Mentre i suoi intermediari trattano e accontentano Chiofalo ed i suoi uomini con qualche centinaio di milioni, lavora per preparargli la trappola e farlo eliminare.

In perfetto stile mafioso, per aver maggiore autonomia e libertà di movimento, nel marzo 1987, Chiofalo prima della cattura a Pellaro (Reggio Calabria), si dava alla latitanza, spostandosi, insieme con i suoi fedelissimi, nell’area brolese in cui il boss si muoveva al sicuro dagli interventi delle forze dell’ordine e da eventuali aggressioni degli avversari, fruendo dell’attività di protezione e controllo svolta dai tortoriciani aderenti al clan.

Con l’uccisione degli esponenti di maggior spessore e il successivo pentimento di Giuseppe Chiofalo, il clan omonimo si ritaglia un proprio spazio nelle zona in cui i Bontempo Scavo sono ancora operativi. Questi, non avendo subito perdite e pentimenti gravi, con il passare del tempo acquisiscono una propria identità muovendosi in autonomia, tollerati dalla “famiglia” di Mistretta e da Cosa Nostra.

Dopo l?arresto di Pino Chiofalo, alla fine del 1987, sono i tortoriciani a trattenere il contributo, ma nel 1990 scoppia la lite con i Bontempo Scavo, i componenti del clan di Galati Giordano Orlando. Questo strappo tra i gruppi tortoriciani comporta nuove pretese: anche i Bontempo Scavo, rimasti fedeli a Pino Chiofalo, pretendono la riscossione del ‘pizzo’.

Nel frattempo l’impresa, pur operando in una zona in cui già si è fatta sentire la ribellione dei commercianti ai tentativi di estorsione, non solo continua a subire in silenzio, ma addirittura, anche se con qualche ritardo, finisce con il pagare entrambi i pretendenti. Così, quando i titolari dell?impresa vittime dell?estorsione vengono chiamati a testimoniare come persone offese, assumono un atteggiamento decisamente reticente, fino al punto di negare ciò che gli stessi estortori, ormai pentiti, avevano già confessato.

Tra battute ed arresti, latitanze e pentimenti, la storia della mafia dei Nebrodi non è mai finita, malgrado l’ultima operazione dei Ros (Reparto operativo speciale dei Carabinieri)  definita “Operazione Montagna” abbia fatto un po’ di pulizia. Quello che rimane da notare, studiando il fenomeno, è che negli anni è mutata la struttura stessa di Cosa nostra che è diventata “imprenditrice”; spesso si è infiltrata nelle imprese legali intrattenendo con esse rapporti stabili; altre volte è entrata, direttamente e senza infingimenti, nella gestione di alcune aziende.

Questa mutazione ha determinato un rapporto mafia-impresa completamente diverso rispetto al passato. Ormai, accanto alla tradizionale figura dell’imprenditore vittima dell’estorsione, che paga tutti in silenzio, avanza una nuova figura, quella del’imprenditore complice che trae vantaggi dal rapporto con la mafia ed instaura col gruppo criminale di riferimento una serie di rapporti di scambio. Da questo rapporto, l’impresa complice trae vantaggi notevoli: può affermarsi ed espandersi sul mercato avvalendosi della “capacità di penetrazione nel territorio” e della capacità intimidatoria propria dell’associazione criminale, può essere “garantita” nei confronti delle altre forme di criminalità esistenti sul territorio ove essa opera; può ricorrere a finanziamenti provenienti direttamente dall’organizzazione, o meglio da singoli appartenenti all’organizzazione, con reciproco vantaggio di entrambe le parti. (foto a destra tratta da narcomafie.it)

Angelo Siino, uomo che ha avuto un ruolo preciso e di primissimo piano in Cosa nostra, poi collaboratore di giustizia ritenuto affidabile, ha dato dettagliate indicazioni sulla presenza mafiosa a Messina, Barcellona, Tortorici e zone limitrofe, con perfetta conoscenza di uomini e fatti.

Per Siino, il territorio della provincia di Messina godeva di uno status particolare in quanto era divisa equamente tra la “famiglia” mafiosa di Catania, allora retta da Benedetto Santapaola, e la “famiglia” mafiosa di San Mauro Castelverde, retta da Giuseppe Farinella, inteso Peppino: il quadro che emerge dalla ricostruzione fatta dal pentito ci fa ritenere che fino ad un certo momento, quasi certamente fino al 1990, in provincia di Messina c’erano solo referenti di Cosa nostra, personaggi che facevano parte di Cosa nostra effettiva, ma non uomini, dal punto di vista delinquenziale e mafioso, adatti ad avere la qualifica di Uomo d’Onore”.

Anche nella zona di Tortorici, “considerata in maniera dispregiativa da Cosa Nostra”, non c’è stata mai una famiglia mafiosa né membri ufficiali di famiglie mafiose, ma solo dei personaggi di riferimento che facevano commissioni per conto di Cosa nostra o si riferivano a essa, senza esserne membri perché non erano stati mai considerati all?altezza.

Nel corso di una riunione tenutasi tra la fine dell’estate 1990 ed il febbraio-marzo 1991 a Catania tra Giovanni Brusca e Nitto Santapaola, presente Angelo Siino, che riporta i dettagli di quell’incontro, fu deciso di affidare a Nino Galati, che veniva considerato un “astro nascente”, la responsabilità e la gestione materiale del territorio di Tortorici, facendolo divenire “una specie di membro esterno di Cosa Nostra”.

Quindi pur ritenendo i tortoriciani gente inaffidabile ed incapace di stare agli ordini (“erano vaccarazzi e pecorarazzi fitusi”, diceva Giovanni Brusca dei tortoriciani), si era ritenuto necessario stabilizzare il territorio attribuendogli la “gestione minuta della delinquenza tortoriciana”, che era veramente preoccupante e invadente.

La storia più recente della mafia e del movimento antiracket nei Nebrodi continua ad essere scandita da intimidazioni, estorsioni, omicidi, processi e sentenze. Il 25 luglio del 2008 la parola “ergastolo” ha tuonato per ben cinque volte nell’aula della Corte di Assise di Messina, quando è stato letto il dispositivo della sentenza relativa al processo “Operazione Icaro-Romanza”. Gli organi di stampa hanno definito il processo come l?offensiva della Direzione distrettuale Antimafia e di significativi segmenti della società civile dei Nebrodi che hanno dichiarato guerra ai clan che hanno tenuto in ostaggio, terrorizzandola, l’intera economia di un comprensorio oppresso dalla tracotanza criminale”.

Nonostante il coraggio di tanti cittadini onesti e l’impegno della magistratura e delle forze dell’ordine, e viste le recrudescenze recenti operanti sul territorio per gli appalti di lavori autostradali e quant’altro, viene sempre da pensare con mestizia a qualcosa a cui Giovanni Falcone aveva già pensato: “La mia più grande preoccupazione è che la mafia riesca sempre a mantenere un vantaggio su di noi”.

Foto di prima pagina tratta da enricodigiacomo.org

Foto in alto a sinistra tratta da radiopatti.wordpress.com

Foto in alto a destra: un paese dei Nebrodi (tratta da nuovosoldo.wordpress.com)

 


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