La Georgia e le ingerenze di Usa e Unione Europea

AMERICANI E UE NON SONO AFFATTO INTERESSATI ALLA DEMOCRAZIA DI QUESTO PAESE. VOGLIONO SOLO SFRUTTARLO, MAGARI UTILIZZANDO LO SCUDO DI DUE ORGANIZZAZIONI ORMAI ABBONDANTEMENTE SPUTTANATE: ONU E FMI

Nei mesi scorsi si è svolto in Crimea il referendum per decidere se continuare ad essere parte dell’Ucraina o se essere liberi (sì perché, in realtà, anche se pochi ne hanno parlato, la Crimea non apparteneva all’Ucraina e i rapporti tra Russia e Ucraina relativamente alla spartizione della Crimea erano stati decisi “a tavolino” dai trattati sottoscritti da Russia e Ucraina …). Tutti hanno notato le pressioni esercitate da USA e Unione Europea, con il coinvolgimento di tutti gli organismi internazionali possibili e immaginabili (dall’ONU al FMI) sulla vicenda.

La storia Crimea/Ucraina non si è ancora conclusa e già si comincia a parlare di una nuova “questione” legata ad un’altro Paese ex URSS: la Georgia.

Pochi giorni fa, con un comunicato ufficiale, la Nato ha fatto sapere che non riconosce le elezioni che si sono tenute ieri in una regione della Georgia, l’Ossezia del Sud. Il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha detto che queste ”elezioni non contribuiscono a una pacificazione duratura della situazione nel Paese”. Quindi i Paesi della Nato “non riconoscono l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud come Stati indipendenti” e ribadiscono ”il sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale della Georgia nei suoi confini riconosciuti a livello internazionale”.

In realtà, il problema “indipendenza” non è limitato ad una regione dell’Ucraina o ad una parte della Georgia, anzi, pare estendersi ogni giorno di più su tutto il vecchio continente. In molte nazioni, dalla Spagna alla Gran Bretagna fino alla buona vecchia Italia, da tempo ormai si assiste al manifestarsi di forme di indipendentismo o, almeno, di autonomia. Molte regioni, stanche di dover sottostare al dominio di amministrazioni centrali, come è avvenuto (e come continua ad avvenire) in Sicilia, hanno chiesto che la restituzione della propria indipendenza. Hanno chiesto di poter gestire la cosa comune in modo diverso da come è stato fatto negli ultimi decenni e di non dover più essere succubi delle imposizioni di Bruxelles, degli USA o di nessun altro.

Ovviamente una cosa simile non può essere accettata da quello che di fatto è diventato un Governo centrale mai eletto né nominato, né incaricato formalmente della gestione della cosa comune. Né può essere accettato da chi ha bisogno di questi Paesi e di queste regioni sia come fonte di approvvigionamento per le risorse che possiedono, sia – e in misura molto maggiore – da chi ha bisogno di poter imporre a queste regioni l’obbligo di utilizzare servizi e di approvvigionarsi di prodotti realizzati da multinazionali senza scrupoli.

Ecco quindi che, ogni volta che una di queste regioni cerca di reclamare il proprio diritto di essere indipendente, in molti intervengono per sedarne le aspirazioni. E lo fanno in ogni modo possibile e immaginabile.

In Ucraina è stata creata una finta rivolta popolare combattuta da uomini mascherati, armati di tutto punto non si sa da chi. In Georgia, almeno fino a pochi giorni fa, si è cercato di seguire una strada più diplomatica (ma non per questo meno coercitiva).

Gli Stati Uniti, per bocca del vicepresidente, Joe Biden, si sono affrettati ad offrire a Moldavia e Georgia un miliardo di dollari per “far avanzare le aspirazioni europee”. Ma perché gli USA dovrebbero “far avanzare le aspirazioni europee” di due Paesi ex URSS, se non per sottometterle alle decisioni di un sistema facilmente influenzabile dagli USA?

Del resto, già qualche tempo fa, Barack Obama aveva già annunciato che Washington avrebbe lavorato per migliorare la capacità dei Paesi non membri della Nato vicini alla Russia, compresi appunto Moldavia e Georgia. Quale capacità? Quella di essere alleati di UE e USA nello scontro economico tra Occidente e Oriente? Sì, perché, al di là delle notizie di chiarimenti tra Obama e Putin, sembra che si stia tornando a molti decenni fa, ai tempi della ‘guerra fredda’.

Solo che oggi la guerra, più che sul fronte militare, la si sta combattendo sul fronte diplomatico e su quello economico. E il modo migliore (per gli USA) di legare alle proprie scelte i Paesi al confine tra i due schieramenti è quello di avvicinarli all’Europa. Non è un caso se sia la Moldavia che la Georgia firmeranno a breve un accordo di “associazione” con l’Unione Europea.

La Georgia, così come l’Ucraina, è da tempo campo di battaglia di conflitti esterni. Nell’estate 2008, Putin guidò una sorta di guerra lampo in questo Paese. Nell’agosto di quell’anno, la Georgia invase l’Ossezia del Sud, una regione autonoma che confinava con la Russia e che rivendicava l’indipendenza. Immediatamente l’esercito russo rispose con la forza e sconfisse le truppe georgiane. Fu allora che Mosca riconobbe l’autoproclamata repubblica dell’Abkazia, sostenendola finanziariamente e militarmente.

Ed è proprio per ridurre l’influenza della Russia su questa regione, probabilmente, che oggi USA e Unione Europea, come sempre spalleggiati da un numero incalcolabile di organizzazioni internazionali, stanno cercando di sostenere la rivolta dell’opposizione abkaza, e di contestare l’attuale leadership filorussa.

In entrambi i casi lo scopo non era quello di garantire la “democrazia” (ammesso che ci sia ancora qualcuno a credere che le missioni di pace siano servite a questo scopo): gli interventi dei Paesi esteri servono a mettere in discussione la politica dell’avversario internazionale e ad acquistare il maggiore peso politico ed economico su un territorio estremamente importante dal punto di vista strategico ed economico.

E, allora, ogni scusa è buona, dai moti di piazza all’occupazione del palazzo presidenziale di Sukhumi, dal rilascio dei passaporto abkazi ai residenti dei distretti orientali che non vogliono abbandonare la loro cittadinanza georgiana, alla crisi economica. Il tutto, esattamente come è avvenuto in Ucraina, condito con una forte pressione mediatica internazionale perché venga istituito un governo di unità nazionale e vengano trasferiti i poteri da politici eletti democraticamente ad un unico soggetto “nominato” sotto le pressioni dell’Occidente.

E mentre i giornali parlano di democrazia e di salvaguardia dei diritti umani, le multinazionali lavorano alacremente. Nei giorni scorsi, ad esempio, Saipem si è aggiudicata un nuovo contratto di Engineering & Construction nella regione del Caucaso, per un valore di circa 750 milioni di dollari. Saipem ha ottenuto dal Consorzio Shah Deniz, in joint-venture con Azfen JV, uno dei principali contrattisti azeri, un contratto per la costruzione e la messa in servizio dell’espansione del gasdotto South Caucasus in Azerbaigian e Georgia.

Il progetto prevede la costruzione, in Azerbaigian e in Georgia, di una condotta di 428 chilometri, con i relativi annessi e connessi (valvole di sezionamento, strutture di pulizia delle condotte e di connessione e, proprio in Georgia, una seconda condotta ad anello di 59 chilometri). Saipem era già operativa sul territorio, essendosi aggiudicata, il mese scorso, un contratto offshore per un valore di 1,8 miliardi di dollari. Che vanno ad aggiungersi ai contratti per altri tre impianti a terra per un periodo di cinque anni, a partire dal secondo trimestre del 2015 oltre alla proroga di un anno di alcuni contratti già stipulati…

“Ovviamente”, queste aziende non possono correre il rischio che un nuovo governo indipendentista chieda di rimettere in discussione i contratti già sottoscritti. Ecco, quindi, che è diventato “indispensabile” garantire che nulla cambi e che venga mantenuta la gestione del governo centrale. Magari celando questa decisione dietro un alone di tutela dei diritti, dimenticando che spesso chi si erge a paladino è proprio il primo a violare questi diritti imponendo a Stati sovrani le proprie scelte…

 

 

 


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