La fuga dalle Università del Sud: anche ai docenti serve una marcia in più…

SE E’ VERO CHE LE CLASSIFICHE SPESSO UTILIZZANO INDICATORI DISCUTIBILI E ANCHE VERO CHE I PROGETTI DI RICERCA SCARSEGGIANO. E IN QUESTO LA RESPONDABILITA’ E’ ANCHE DEI DOCENTI MERIDIONALI

Come è noto, ormai da più anni, – lo ha confermato di recente il Rapporto Svimez 2013, negli ultimi venti anni sono emigrati dal Sud circa 2,7 milioni di persone – assistiamo ad una mobilità di cervelli in formazione dalle regioni del Sud alle Università del Nord. Con un doppio costo per il Mezzogiorno: intanto costituito dalle spese sostenute nella formazione di base. In secondo luogo, dalle spese affrontate dalle famiglie che ovviamente supportano trasferimento e residenza dei nuovi emigrati.

Una conferma a questo fenomeno viene dall’applicazione recente di una misura a favore della mobilità interna tra regioni, finalizzata alla frequenza di una Università localizzata fuori dal luogo di residenza degli interessati. Nel decreto cosiddetto del “Fare” erano infatti previste borse di mobilità per studenti che avessero voluto immatricolarsi in un ateneo (statale e non) di una regione diversa, ripetiamo, da quella di residenza. Ne sono state attribuite, a fronte di 4 mila domande, 889 tra le quali 151 alla Sicilia (su un totale di 715 borse assegnate alla mobilità dal Mezzogiorno). Giovani meridionali, dunque, che si iscriveranno in Università distanti da casa (Lombardia, Piemonte, Toscana, Emilia Romagna). Mentre lo stesso non accade – viene fatto notare – per gli studenti in mobilità dal Nord, i quali, oltre ad essere in numero (80) assai limitato, tendono a non scendere a latitudini al di sotto della Toscana. Le cifre citate testimoniano impietosamente la maggior fiducia riposta dai giovani del Sud negli Atenei del Nord, ritenuti di più alto livello e qualificazione. Se per regioni come la Sicilia e la Calabria (141) questo trova spiegazione immediata, stupisce il dato per la Campania (90) le cui Università godono prestigio nella comunità accademica europea.

Le motivazioni di questa scelta, in parte, sono intuibili. Per altro verso, sono state rese note da ricerche sul tema. In sintesi, si pensa di ricevere una migliore preparazione, una maggiore assistenza nel trovare un lavoro dopo la laurea, dato un contesto economico più favorevole, e, motivazione forse più importante delle altre, di vivere nuove esperienze fuori da un ristretto circuito familiare ed amicale nel quale finora si è vissuti. Negli Stati Uniti, ad esempio, e nel resto d’Europa è consuetudine, quasi un passaggio fondamentale nel percorso di vita, iscriversi in una Università diversa da quella di casa con un sistema di borse di studio che facilitano studenti in condizioni non agiate.

Alla “trasmigrazione” contribuisce la brutta immagine di certe Università del Sud (Bari, ad esempio, e Messina), grazie alle loro posizioni nelle classifiche sugli atenei, alcune di dubbia elaborazione, e comunque lo stereotipo nazionale che alimenta una raffigurazione “scandalistica” nel complesso delle Università statali a vantaggio di quelle private (le più importanti localizzate da Roma in su), raffigurazione enfatizzata per le Università del Sud.

Sul punto non è facile offrire argomento in difesa. Va però ricordato subito che le sbandierate classifiche spesso andrebbero “spacchettate” per parametri di valutazione. Nella maggior parte dei casi emergerebbe che il differenziale tra le Università del Sud e le altre è sostanzialmente incentrato sulla ricerca e non sulla didattica. Divario cui contribuisce in modo sostanziale il rapporto tra università ed imprese assai più sinergico al Nord. La ricerca universitaria è “stimolata” soprattutto dalla presenza delle grandi imprese. Una variabile esogena al sistema che richiederebbe azioni di concerto ed un’efficace mediazione istituzionale.

Tutto questo, sia ben chiaro, non assolve le Università del Sud che dovrebbero da subito esprimere nuovi modelli di persuasione e promozione contro la “fuga dei cervelli”. Guardando al loro interno per eliminare rendite e incrostazioni e provando a rimuovere fattori di ritardo. A partire dall’impegno dei docenti, monitorandolo, valutandolo e, se del caso, premiandolo o, viceversa, sanzionandolo. Un esempio. Non tutti sanno che l’ultimo vaglio di qualità delle singole Università è stato fatti sui “prodotti” di ricerca dal 2004 al 2010 dando facoltà ai docenti di presentarne tre ritenuti di contenuto più interessante. E’ notevole, in molte Università del Sud che conosciamo, la massa dei cosiddetti “inattivi”, docenti cioè che per ragioni varie non hanno presentato alcun “prodotto” senza incentivi o sanzioni. E questo potrebbe ripetersi nei prossimi anni.

Veniamo all’ultima questione: la maggior facilità al Nord per un laureato di trovare lavoro. Alcuni studi ci dicono che è certo più facile trovare occupazione a Milano che a Napoli, ma si tratta spesso di easy-job con salari assai inferiori al cosiddetto salario di riserva (il salario cioè che le aspettative del laureato considerano congruo al fine dell’accettazione di un’offerta di lavoro). Una recentissima rassegna, accorpando le tipologie di laurea, calcola il salario medio di un laureato triennale (a quattro anni dalla laurea) in 1374 euro al Nord e 1218 al Sud. Se guardiamo al divario tra l’Italia e gli altri paesi europei il problema di cui abbiamo parlato si accentua: una differenza sostanziale nel primo salario (cinquecento euro) si realizza tra chi è andato all’estero e chi è rimasto in Italia. Un ulteriore incoraggiamento a fuggire dalle Università del Sud verso l’estero con voli diretti senza scali interni?

Mario Centorrino

Piero David


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