La Dolce Vita

di Federico Fellini
Italia/Francia, 1960
con Marcello Mastroianni, Anita Ekberg, Anouk Aimee

 

 

 

 

Il film che segna la maturità creativa di Federico Fellini e che divenne uno spartiacque nel panorama cinematografico del tempo, fu considerato già all’epoca della sua uscita nelle sale uno scandalo, suscitando numerose polemiche e la condanna dei cattolici, per la leggerezza con cui affrontava tematiche allora scottanti: la dissolutezza dei costumi e l’eclissi del sacro.
Indimenticabili la scena d’apertura del film, con il Cristo Lavoratore appeso ad un elicottero che sorvola la città e quella dell’apparizione della Madonna, una vicenda montata dai genitori di due bambini in una borgata romana, trasformata in evento mediatico e spogliata di ogni parvenza di spiritualità sincera.
Nonostante ciò, il film ottenne la Palma d’oro a Cannes, dalla giuria presieduta da Georges Simenon, e il tempo l’ha consacrato uno dei capisaldi del cinema italiano e mondiale.

La nascente industria culturale e il divismo degli anni ’60 fanno da sfondo a questa storia che non ha inizio e fine, ma che fu definita un affresco creato per giustapposizione degli eventi. Il linguaggio associativo che Fellini introduce con questo film rappresenta la vera rivoluzione dell’opera.
L’unica evoluzione presente nel film è quella del percorso interiore del protagonista, immerso nelle vicende di cui è attore principale e vittima al tempo stesso.

La vicenda di Marcello Rubini, giornalista aspirante letterato che si guadagna da vivere lavorando per i giornali scandalistici (seguito dal suo fedele paparazzo, un neologismo dovuto proprio a questo film e derivato dalla storpiatura del cognome di uno di loro) disegna i tratti di un personaggio che si addentra nella “dolce vita” della Roma degli anni ’60, tra i caffè di via Veneto, gli esclusivi night-club, orge notturne presso ville di provincia, frequentazioni di un’aristocrazia annoiata e dissoluta e di dive tanto petulanti quanto affascinanti (l’indimenticabile Anita Ekberg).

Al turbinio di lustrini e luci nella città notturna si oppongono immagini di una vita alternativa, pulita ma monotona.
Emma, la compagna di Marcello che per gelosia tenta il suicidio, si propone come modello di vita lontano dagli eccessi di cui la stampa scandalistica si nutre, e con essa lo stesso Marcello. Ma sarà dal protagonista rifiutata come asfissiante limite al proprio percorso sociale.
L’amico Steiner, letterato esistenzialista, lascia intravedere a Marcello le gioie semplici e pure di una famiglia, ma finirà per gettare il protagonista nel baratro del più freddo cinismo quando compirà il gesto estremo del suicidio dopo aver ucciso i figlioletti.
Il padre, che Marcello, con un misto di preoccupazione e di tenerezza apprensiva, porterà con sé in giro per quella Babilonia disperata che era la Roma al tempo del boom economico e che fuggirà da quella città dopo una notte tra ballerine francesi, alcool e allusioni pericolose.
E infine la giovinetta conosciuta in una trattoria, molto diversa dalle dive che egli è solito frequentare e che apre uno squarcio su una vita di provincia, semplice e assolata, giornaliera.

La stessa fanciulla Marcello incontrerà alla fine del film, sulla spiaggia di Fregene, quando, insieme ad un gruppo di sbandati giovani romani stanchi e spossati dalla noia e dalle orge notturne appena vissute, sarà attratto e disgustato al tempo stesso da un mostro marino, morto, sulla sabbia. E non si accorgerà di essere diventato egli stesso un mostro, ormai sordo e cieco ai richiami della vita normale. Marcello non udrà le parole e non comprenderà più i gesti di quella giovane che lo chiama da lontano. Allora l’ultima speranza di salvezza è perduta, e si allontana.

Ciò che maggiormente sorprende in questo film è la totale assenza di intenzioni moralistiche, politiche e sociologiche che Fellini ha sapientemente evitato affidandosi ad una vasta gamma rappresentativa per gestire la mole di materiale sociale che fotografa nel film.
Si va dalla caricatura più espressionista al realismo più crudo e laddove la caricatura si fa più grottesca, interviene una maggiore incisività del giudizio morale. Ma solo attraverso la dimostrazione, evidente, della vacuità di quella realtà che i realisti si ostinavano a mettere al centro dell’opera.
Quando la realtà crolla, sotto il peso del proprio vuoto esistenziale, non resta altro che il luccichio delle luci notturne, e involucri vistosi e attraenti, senza null’altro dentro che la “vanità”.

Lungo il film il regista gioca spesso su questa doppiezza rappresentativa: la realtà, che si scopre vuota di valori, e la realtà costruita dalle foto dei paparazzi, dai giornali scandalistici, dall’occhio deformante della cinepresa, altrettanto fasulla ma consapevole dell’atto di mistificazione su cui si basa.

Marcello ne diventa esempio e al tempo stesso guida per noi che percorriamo quel mondo liberi da imposizioni di giudizio suggerite dall’imparziale regista, che si limita a fotografare, non realisticamente come voleva la scuola neorealista, ma poeticamente.

Sara Mostaccio

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