Trovarsi a Milano nel mezzo dei festeggiamenti nerazzurri. Abiurare temporaneamente il proprio (fragile) credo bianconero. Fare festa in mezzo a una folla ad alto tasso alcoolico, che non è proprio il caso di contraddire. Finché qualcuno sente il tuo accento catanese e decide di interrogarti su Zenga
Io, interista per sbaglio
Sono juventina. Ma juventina d’adozione, nel senso che mio padre, se avessi deciso – alla tenera età di un anno – di tifare per un’altra squadra, avrebbe lasciato volentieri un’altra famiglia a sorbirsi una degenere interista, romanista, laziale o, peggio ancora, milanista. Sono juventina e so che in squadra ci sono Del Piero e Buffon, e pure quell’altro, il biondino, Nedved. Lo stadio? Ci sono entrata una volta soltanto: c’era la partita del cuore e giocava Claudio Baglioni. Eppure, che ingiustizia la retrocessione della mia squadra per via di un paio di Rolex!
E lo scudetto.Vogliamo parlare dello scudetto? Ce l’hanno tolto e l’hanno letteralmente regalato all’Inter. Gli interisti, poi, l’hanno accettato come niente fosse. E andateglielo a spiegare che era immeritato, che i titoli si conquistano sul campo, che una stellina in più sulla maglia non cambia la situazione. In fondo, si tratta di titoli. Una mera questione di titoli.
Insomma, l’avrete intuito, sono un’esperta conoscitrice del calcio. Per via di questa conoscenza che mi rende meglio di Maurizio Mosca, ieri sera, passeggiando per le vie di Milano, quando ho sentito suoni di clacson precedere sfilze di auto in corsa, mi sono detta: «Mioddio, dev’essere successo qualcosa di brutto: tutte queste persone che si precipitano all’ospedale…» Quando, aguzzando lo sguardo, ho scorto le prime bandiere nero-azzurre sventolare nel cielo grigio di Milano, mi sono resa conto.
L’Inter ha vinto lo scudetto, e al Milan, storica avversaria nonché unica a combattere per il titolo di campione d’Italia, non è rimasto che piangere (queste saranno ricordate come le settimane più felici della vita di Berlusconi, non c’è dubbio).
Piazza del Duomo, a partire dalle 22, era irriconoscibile: quella strana popolazione che sono i milanesi saltava e ballava al ritmo dell’inno nazionale, poi dei White Stripes stra-plagiati, e poi di Adriano Celentano, perché “il cielo è troppo azzurro e pure un po’ di nero non stona”, secondo quanto affermava un uomo con l’ombelico al vento e dei morbidi pettorali sui quali un reggiseno per taglie forti sarebbe stato bene come lo zafferano nel risotto alla milanese.
Fuochi d’artificio e trenini alcolici si mischiavano al rombo delle moto guidate da padri che con una mano reggevano il manubrio, con l’altra il vessillo della squadra di Mourinho e col pensiero speravano che i due figli, accodati sul sellino, non cadessero: del resto, a loro era toccato il compito più gravoso, suonare la tromba. Saltando su cocci di bottiglie rotte e facendo la gincana tra fumogeni neri e blu, arriva il momento dell’inevitabile: chi non salta juventino è.
Mi scorrono davanti, come in un microfilm, le immagini più significative della mia infanzia: la figurina di Conte regalatami da mio padre e gelosamente custodita finché non l’ho scambiata con quella rarissima che mi consentiva di finire l’album de “La Bella e la Bestia”; i punti della Parmalat raccolti per mesi e mesi solo affinché potessi indossare anch’io, alla tenera età di sei anni, una disgustosa felpa anni ’80 con lo stemma dei bianconeri appiccicato sopra; l’odio inveterato per Holly, Benji e la loro vile maglia a colori. La vedo, la faccia di mio padre. E vedo anche il suo indice accusatorio puntato contro la sottoscritta in procinto di tradirlo, il suo cuore spezzato e la sua firma che cancella il mio nome dal testamento.
Un gruppo di Ultras fiuta la mia titubanza (e sente il mio accento marcatamente siculo). I catanesi a Milano, almeno nella metà interista, sono ben accetti. Il Calcio Catania è una squadra stimata, dicono. Interista? Sono interista? Io sono interista?
Pensandoci, l’eredità paterna non dev’essere un granché e alla vita ci tengo: sì, sono interista. Per una sera, mi dico, posso essere interista. Hanno vinto lo scudetto e, a giudicare dalle reazioni della gente, non ne vedevano uno da secoli. «E Zenga? Di Zenga cosa pensi?».
«Penso tante cose, di Zenga. Diciamo che, in campo, non se la cava male». I tifosi sembrano incuriositi, e la mia arroganza mi spinge a continuare, ad inoltrarmi in un campo sconosciuto. Il calcio è un gioco semplice. Ci sono gli attaccanti e i difensori. Zenga, questo sconosciuto, dev’essere l’uno o l’altro. I difensori, però, non fanno breccia come i più dinamici attaccanti, sono gli eroi silenziosi, di cui a nessuno importa nulla.
Nessuno chiederebbe un’opinione su un difensore, perché sarebbe come chiedere ad uno scrittore cosa pensa di chi ha composto il risvolto di copertina. Sfodero il sorriso delle migliori occasioni, socchiudo gli occhi in una smorfia di compiacimento e, melliflua, affermo: «In fondo, dai, è un ottimo attaccante, Zenga!»