«Io, cresciuto dentro l’ospedale di Giarre Grande famiglia che lottava per la salute pubblica»

Si parla molto in questi giorni dell’ospedale di Giarre, della sua chiusura, del suo percorso politico. Ma ben pochi sanno che questo luogo non era solo una struttura per prestare servizi medico-sanitari, ma una sorta di famiglia, in cui si intrecciavano le storie di degenti e personale. Chi vi scrive è proprio uno dei protagonisti di queste storie. Di una in particolare, talmente singolare per cui mi si attribuisce l’appellativo figlio dell’ospedale. Non sono nato, come è prassi, ma cresciuto tra quelle mura intrise di dolore e di speranza. Essendo mia madre ammalata di schizofrenia, il giudice minorile, l’avvocato Assennato, mi affidò al momento della nascita a mia nonna, infermiera del nosocomio giarrese, decretando che lei potesse portarmi al lavoro, in ospedale, fino alla maggiore età. 

Proprio così. Mia nonna mi portava con sé al turno in un port-enfant di colore blu, e mi affidava ora a una paziente, ora ad una collega o alle brave suore bocconiste, fondatrici di quella struttura, anche loro adesso liquidate. Molti mi fermano per strada e mi dicono «io ti ho cullato», «io ti ho tenuto nel mio letto quando ero ricoverata», «io ti ho imboccato». Crescendo, si ampliavano i miei movimenti all’interno della struttura. Anche perché un bambino deve giocare. Gli infermieri mi facevano spingere il carrello con la terapia, o mi portavano sulle barelle. Se mi annoiavo andavo al pronto soccorso e mi divertivo a vedere le sirene delle ambulanze che arrivavano. Ricordo ancora un ginocchio spezzato in due con l’osso scomposto. Se i posti letto erano tutti occupati, nei turni di notte, dormivo sulle panche dei corridoi, accanto alla stufa, ricoperta di legno bucherellato. Per passare il tempo spesso contavo tutti i buchi. 

Una volta il professor Fiaccavento, primario di chirurgia mi trovò sotto il tavolo operatorio, telefonò in reparto a mia nonna: «Nerina scendi e prendi Maurizio. Devo annullare l’intervento ora e stelirizzare tutto». Spesso portavo i cestelli dai reparti alla sterilizzazione. O le lenzuola in lavanderia. Memorabili le mangiate notturne nella sala infermieri. E le notti di Capodanno. E i pazienti che potevano mangiare non venivano esclusi. Ricordo mia nonna quando portava il caffè ai parenti che durante le notti vegliavano. O le granite al limone col ghiaccio per le borse. Il rosario il pomeriggio per i reparti e la messa nella chiesetta a piano terra, gli ammalati ricevevano tanto conforto da quelle preghiere. 

L’unico reparto che mi era interdetto era l’ostetricia: suor Venerina chiudeva con severità la porta e mi cacciava. Durante l’adolescenza restavo di più con mia nonna nei reparti anche perché poi istituirono a Giarre la scuola per infermieri professionali. Anche questo era l’ospedale di Giarre, e io mi divertivo a scherzare con gli allievi infermieri. Quando arrivava don Carmelo di Costa, figlio dell’ostetrica Vaccaro, era una festa perché non ero solo e potevo giocare di più. Allora si facevano le gare nella scivola all’ingresso. Si correva, si rideva e tanti ammalati dimenticavano per un attimo i loro problemi, riassaporando la freschezza della vita. 

Quando leggo i cartelli negli ospedali «ingresso vietato ai minori di 12 anni» mi viene da ridere. Io ci sono cresciuto dentro un ospedale. In quell’ospedale che adesso hanno smantellato per chissà che cosa. 

Al compimento dei 18 anni, nel 1991, non potevo più stare lì. Mia nonna mi regalò la chiave dell’ascensore. La tanto sospirata chiave dell’ascensore. Un sogno. Ancora la conservo. Chissà, magari un giorno lo riapriranno e potrà essermi utile. Tornerò a correre e a dormire tra quei reparti, dove una grande famiglia lottava giorno dopo giorno a beneficio della salute pubblica. Senza compromessi, senza faziosità politiche. E dal cielo mi sorrideranno tutti gli infermieri che col loro sudore e i loro sacrifici costruirono un pezzo di storia. Storia che viene adesso lacerata. Mi piacerebbe conoscere questi politici che hanno decretato una fine ignominiosa per noi tutti. Spero leggano quest’articolo e mi cerchino. Posso regalargli la chiave dell’ascensore.

Maurizio Buscemi Bongiorno


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Maurizio Buscemi Bongiorno è stato affidato da piccolo alla nonna infermiera. Per anni quei corridoi sono stati casa sua. «Molti mi fermano per strada e mi dicono "Io ti ho cullato", "Io ti ho tenuto nel mio letto quando ero ricoverata". Una storia adesso lacerata - scrive a MeridioNews - Mi piacerebbe conoscere i politici che hanno decretato questa fine ignominiosa»

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