Riprendiamo da Repubblica.it questa intervista a una laureanda ammalatasi di tumore proprio mentre studiava nel laboratorio dei veleni. Una testimonianza dura, che contiene in sé le domande cui l'inchiesta giudiziaria dovrebbe trovare una risposta
«Io, avvelenata in facoltà»
“Io non voglio morire, voglio vivere, voglio laurearmi anche se so che questa laurea potrebbe essere la mia tomba. Ma non mi arrendo, combatterò con tutte le mie forze. Ho dovuto rallentare gli studi per questo tumore alla tiroide che mi ha aggredito nel 2006. L’ho scoperto per caso, proprio dentro il laboratorio di Farmacia mentre stavo studiando, ironia della sorte, la tiroide. Stavo facendo degli esperimenti e, istintivamente, mi sono guardata ad uno specchio ed ho notato che la tiroide era asimmetrica. Ho pensato che ero suggestionata proprio dagli esperimenti che stavo facendo. Poi, invece, ho scoperto che il tumore mi aveva aggredito. Adesso sono ancora sotto chemioterapia, prego Dio che riesca a salvarmi, ma loro, i docenti, i presidi, i professori con cui sono stata sempre a contatto, perché mi hanno tradito? Perché hanno tradito tutti quei ragazzi, quei miei colleghi che sono morti o stanno per morire?”.
Stefania (il nome è di fantasia), 23 anni, non vorrebbe parlare, ha paura anche lei, come tutti gli altri, poi accetta ma ci prega: “Non fate il mio nome, non fatemi identificare altrimenti questa maledetta laurea non la prenderò mai”. Il suo nome è nella lunga lista di studenti, dottori, ricercatori ammalati che hanno frequentato quel laboratorio di Farmacia dell’Università di Catania che ha già fatto 15 vittime, uccise dalle esalazioni e dalle sostanze tossiche maneggiate senza precauzioni.
“Ho scoperto tutto, ho collegato tutto, quando ho letto su Repubblica il diario di Emanuele Patanè, il ricercatore morto tre anni fa. Mi è venuta la pelle d’oca, mi sono messa a piangere, molte di quelle persone che non ci sono più le conoscevo, erano miei compagni di laboratorio, anche Lele”. Stefania s’interrompe spesso, è stanca anche a causa della sua malattia. “Dentro quel laboratorio ogni tanto si parlava di qualche collega morto o che si era ammalato, ma i professori ci dicevano che quelle malattie non avevano nulla a che fare con il lavoro. “Coincidenze”, così le definivano. Ci ho creduto, ci credevamo ed abbiamo continuato a fare esperimenti. Pensavamo che con le mascherine, con i guanti, eravamo protetti. Anche quando versavamo nei lavandini del laboratorio i residui di quei solventi, di quei veleni”.
Stefania ha scoperto di essere ammalata di tumore alla tiroide proprio l’anno scorso. “Sulle prime non volevo crederci. Poi mi è caduto il mondo addosso. I medici mi hanno dato delle speranze, mi hanno detto che bisognava fare un intervento chirurgico. I miei genitori ed il mio ragazzo mi facevano coraggio e ho deciso di fare l’intervento”.
Adesso Stefania è ancora sotto chemio, cerca di essere serena e spera di farcela.
“Per mesi ho abbandonato gli studi, con quello che avevo dentro non potevo più frequentare l’Università e quel maledetto laboratorio. Mi chiedevo, quando morirò? Perché non posso salvarmi? Erano domande continue, frequenti, stavo muta con dentro il mio dolore. Poi, grazie a chi mi è stato sempre vicino, ho cominciato a sperare. Adesso sto riprendendo a studiare, voglio andare avanti e a tutti quelli che sono nella mie condizioni vorrei dire di non farsi prendere dal panico”.
Quello che però addolora di più Stefania è quello che lei chiama “tradimento”. “Noi non potevamo certo sapere o immaginare. Ma loro, i nostri docenti, lo sapevano. Mi sentivo sicura, protetta, invece quella era una macelleria legalizzata. Adesso capisco perché qualche anno fa, improvvisamente, fecero dei lavori dentro il laboratorio, poca cosa, la sostituzione di una cappa che non tirava bene e qualche altro intervento. Ma lì bisognava fare altro. Adesso mi rendo conto che ci hanno mandati a morire. Perché? Perché? Qualcuno abbia il coraggio di rispondermi”.
Articolo tratto da “La Repubblica” pubblicato sabato 13 Dicembre.