Quando nasce il gruppo Iarba e, poi, il C.T.S?
Il gruppo Iarba nasce intorno agli anni ’80. Viene scelto tra una ventina di gruppi che emergono all’interno della ricerca teatrale italiana. Nel 1996 nasce il C.T.S., che diviene, sin dall’inizio, un organismo che punta sulla formazione del pubblico (elemento per cui, qui in Sicilia, si è sempre distinto dagli altri organismi culturali). Principale scopo del progetto è sempre stata la teatralità diffusa (in rapporto al mondo della scuola, alla formazione specifica) ed è riuscito a coprire, in più anni, delle significative fette di mercato. Ha sempre giocato molto sulla competenza, a tutti i livelli e sotto ogni prospettiva.
Inclusa in tutto questo circuito c’è stata la serie di laboratori di critica teatrale patrocinati dall’associazione dei critici italiani che si è svolta nei vari anni e che ha visto coinvolto un premio di critica dedicato a Domenico Danzuso. Questi laboratori sono stati resi possibili grazie alla partecipazione di molti giovani (universitari e non) spontaneamente interessati.. I laboratori rappresentavano dei momenti di interazione tra gli attori (o produttori dello spettacolo) e gli spettatori, poiché proprio l’attenzione allo spettatore era, come ho accennato prima, una delle caratteristiche principali dell’attività del C.T.S.
Cosa sta succedendo nel mondo della cultura in questo
momento? E quali potrebbero essere i percorsi da seguire?
Il mondo della cultura, in questo momento, è in piena crisi e sta mettendo in discussione le diverse funzioni, tra cui il fenomeno dell’attenzione del e all’individuo come spettatore. La comunicazione teatrale, da tutto ciò, ne esce soppressa.
Percorsi tattici non ne esistono più, piuttosto si potrebbe solo parlare di strategia; ciò che in ogni caso è veramente importante è la coscienza di un’identità.
Cosa vuol dire per lei il termine Cultura?
Io penso che la Cultura sia quella individuale, quella non condivisa, quella che contiene in sé il forte sentimento dell’individualità. A questo significato si oppone poi quello del termine di Aggregazione, che fa invece perdere la coscienza dell’individualità. Il termine Cultura equivale all’idea di uno scambio di energie tra produttore e territorio. Catania, all’interno di questo quadro, esclude tutte le forme di comunicazione legate al rischio. Il rischio culturale è una parola chiave. L’emergenza e
la precarietà non fanno paura ma il rischio culturale non può essere sostenuto interamente o maggiormente dal privato, dev’essere invece supportato dall’ente pubblico. Qui, a Catania, (e questo non accade nelle altre città) gli Enti abdicano alla loro funzione pubblica. Sono principalmente (se non unicamente) gli interessi particolari a motivare il loro operare e Catania, è palese, rappresenta il più accentuato esempio di sottosviluppo culturale.
Qual è la sua idea di teatro?
E’ quella di un teatro non compiuto, nel senso di non definitivo, ma sempre in continuo movimento, caratterizzato dal dinamismo, dalla capacità di mettere tutto in discussione giorno dopo giorno. E il mio teatro, (l’ho dimostrato in questi anni), ha lasciato cogliere il suo aspetto sociale, oltre che artistico. Inoltre per me teatro è fondamentalmente Comunicazione, attuata attraverso il desiderio del viaggio (come conoscenza inesauribile). Nella città di Catania sono necessari i compromessi e le Istituzioni in essa presenti prediligono la
staticità.
Quali sono le paure ( se ne ha) di Nino Romeo?
Ciò che maggiormente mi fa paura è la perdita dell’autonomia per mancanza di risorse, appunto, autonome. Chiudendo Camera Teatro Studio ho la consapevolezza che resterà scoperta una grande richiesta che in questi anni abbiamo sentito viva. Sento di lasciare un vuoto difficile da colmare ed è questo il mio rammarico, insieme alla spiacevole consapevolezza di veder sparire la più giovane realtà professionale: la nostra, per l’appunto. E la fine di questa realtà professionale urta nettamente con l’immagine che qualcuno vuole dare di una Catania che, di fatto, non esiste: quella della Parigi del Sud.
Quali sono i suoi propositi a questo punto?
Tra quelli più immediati c’è quello di “Riconvertirsi”. Catania, per me e Graziana, ha rappresentato una tappa di piacere e non una necessità. Avevamo allora una struttura consistente, capiente, all’inizio. Poi, con gli anni, si è sempre più ridimensionata; ci siamo dovuti privare di molte persone che si occupavano dell’amministrazione. . Col tempo ho sempre più visto Catania come una fossa, sia per le aspettative professionali che per quelle occupazionali. Ora guardiamo altrove… Ci saranno dei
festivals tra i nostri progetti, insieme alla valutazione di nuovi enti dai quali poter avere supporto per non dover rinunciare alla nostra autonomia. Qui, a Catania, questo non è possibile, e non solo adesso, con questa amministrazione, ma anche in passato non avevamo molto di più. Non si tratta di un gioco di potere, non è una questione di colore politico, si tratta solo di avere a che fare con l’allarmante problema dell’offerta culturale.E si correrà il rischio di non avere più la varietà di scelta culturale.
Concludo quest’intervista con un’ultima domanda: se dovesse
rappresentare con un testo teatrale lo stato attuale della cultura
a Catania, quale sarebbe il testo della messinscena?
L’opera da tre soldi., L’Albergo dei poveri. Ma basterebbe una
semplice battuta: “Il piacere dell’onestà”!…
A Palermo sono state fatte 195 le multe a chi guidava un monopattino elettrico senza…
Andrea Bonafede, Giuseppe Giglio e Vito Accardo, ma anche Gaspare Bono, Giuseppe Bono, Renzo Bono…
«La regola dei tre giorni». Era quella applicata dai malviventi, e già nota a chi…
Un pranzo in famiglia si è trasformato, a Catania, in una lite tra padre e figlio…
Il giudice del lavoro del tribunale di Catania ha condannato l'Inail a riconoscere la malattia professionale da…
Sono in corso perquisizioni negli ospedali Villa Sofia e Civico di Palermo nell'ambito dell'inchiesta sulle coperture di…