In copertina la sua testa sotto spirito, chiusa dentro un barattolo, finito dentro un armadio; in orrida compagnia di borsette, monili, pillole e tacchi a spillo. Un album più introspettivo, con l’inconveniente che nel suo caso «non c’è differenza alcuna tra l’introspezione e l’autopsia». Autopsia è il nuovo concept di Mapuche, maschera del cantautore catanese Enrico Lanza, che da qualche giorno fa capolino su Rolling Stone Italia con l’anteprima del singolo Il chiodo. Lo avevamo lasciato al 2011, anno dell’ep Anima latrina, che con le sue stonature urlate e le sue chitarre scordate si fa notare dalla critica italiana, ora incasellandosi nel cantautorato “altro”, ora incastrandosi negli accostamenti a Rino Gaetano. Dai quali Mapuche se la svigna come meglio sa fare, ricorrendo al paradosso e intitolando Compreso il cane l’ep 2014. In uscita il 24 febbraio, l’album di Lanza – il secondo dopo L’uomo nudo – è stato registrato tra Toscana e Sicilia e si appresta ad essere lanciato con un tour in tutta la penisola. Lo abbiamo ascoltato per intero e ne parliamo con l’autore.
Sei partito nudo: Anima latrina era tutto chitarra e voce. Con L’uomo nudo sono arrivati gli arrangiamenti e hai cominciato a esibirti con un gruppo. Come ti senti “più Mapuche”?
Sono cose diverse. C’è chi mi accusa di essermi snaturato. Io credo che gli arrangiamenti arricchiscano senza togliere nulla. È ovvio che nudo e crudo ottengo un effetto diverso, ma mi trovo bene in entrambi i casi.
«Tirate sul pubblico e non abbiate alcuna pietà», «suggerite l’eutanasia a chi tiene in vita la critica musicale», «tirate pure sugli artisti, soprattutto su quelli che non hanno compreso la necessità dei fischi»: Mr. Sophistication sembra il tuo manifesto di poetica. Nessuna paura di risultare snob?
Mr. Sophistication in realtà è il personaggio di un film di Cassavetes. Fa il cantante e apre gli spettacoli in un night club, e c’è una scena in cui dice che se le cose vanno bene la gente applaude le tette, se vanno male dà la colpa ai freaks. Mi ha fatto riflettere, mi ha dato l’input. Con quel brano però non volevo sparare nel mucchio, l’intento non è demolire la scena artistica. È una condanna a un certo modo di intendere la musica. Oggi non si approfondisce e si mettono fischi e applausi in un unico calderone. C’è bisogno di fenomeni da baraccone, ed è contro questo che volevo scagliarmi.
«Più di ogni altra cosa vanno temuti gli applausi». Faccio schifo al cazzo è diventata un fenomeno fra questi giovani d’oggi che prendono le citazioni altrui e le fanno proprie.
Sì, purtroppo. Non ho più nemmeno controllato le visualizzazioni su youtube. Quando l’ho scritta ero cosciente che fosse una canzone pericolosa. La gente tende a soffermarsi sul lato divertente, ma è una canzone dolorosa. Ritorniamo al discorso di prima: difficoltà ad approfondire i messaggi e bisogno di fenomeni da baraccone.
Autopsia fa un po’ piangere.
No, devi ridere. Io rido! Ma è la differenza pirandelliana tra comicità e umorismo. Nella prima non c’è riflessione, io preferisco sempre il secondo. Autopsia è una sorta di concept, in quel momento della mia vita c’era un tema portante, ma i brani sono stati composti in un arco di tempo che va da tre anni a sei mesi fa. In L’uomo nudo c’erano più temi religiosi e bisogno di riderne, questo è un album più introverso.
– Quando ero morto, Al mio funerale, L’autopsia: tanto umorismo macabro. Che rapporto hai con la morte?
Bella domanda. Ho letto Storia della morte in Occidente solo dopo aver scritto tante belle cose. Il libro di Philippe Ariès spiega bene come oggi la morte sia diventata un tabù, mentre prima non lo era. Ecco, nelle mie canzoni c’è un rapporto senza tabù, e a volte la prospettiva della morte diventa persino una soluzione per risolvere patemi e angosce. Almeno nelle canzoni: nella vita non so se riesco a essere proprio così sereno e spudorato. In ogni caso l’umorismo macabro non è ricercato, mi viene naturale.
Dopo Dubrovnik e Danny De Vito, senza nesso apparente, spunta Andy Luotto… I tuoi testi ne sono pieni, che rapporto hai con il nonsense?
Un rapporto ancora più spontaneo di quello che ho con la morte. A volte succede per rispetto della metrica, e spesso mi chiedo se non sarebbe più giusto dire cose che la gente capisce. Ma poi, per abitudine o per pigrizia, resta il nonsenso. Dubrovnik però il senso ce l’aveva: era l’idea fissa di un mio amico, che c’era andato in vacanza e aveva ricevuto un trattamento speciale da parte delle donne. Ritornarci era diventata la sua ossessione. Danny De Vito invece è colpa della rima. Andy Luotto suonava bene anche lui, ma a parte quello, era il ricordo di una scena di Mortacci di Sergio Citti.
Lo canti in Controgiovane: ami davvero leggere Domenico Di Giovanni detto il Burchiello?
Questa citazione mi aiuta a ricordare quando ho scritto quel pezzo: studiavo per il primo corso di letteratura italiana, molto tempo fa, quindi. Il riferimento è il sonetto La poesia combatte col rasoio, il Burchiello è un poeta del Quattrocento che si guadagna da vivere facendo il barbiere. Alla fine di quel componimento, dice che non gli importa se vincerà la passione o il mestiere, e scrive qualcosa come “chi mi vuole più bene mi offra da bere”.
Cantare è il tuo mestiere?
Finchè sentirò l’esigenza di esprimere qualcosa lo farò, anche a costo di perdere la faccia. Ma un conto è avere delle cose da dire, un altro è fare il barbiere, avere un mestiere.
L’uomo nudo, quello che balla solo al supermercato: come nascono questi personaggi che evadono nella follia?
Il punto di partenza è sempre una visione, chi scrive ne ha una e gli dà corpo. Alcune volte la visione è delirante, in altri casi è più amara, ma è sempre qualcosa che ti balena in mente. A una festa, qualcuno mi ha chiesto perché non ballassi, e io ho risposto che ballavo solo al supermercato. Deve esserci stato qualcosa, non ricordo, ma nel supermercato della canzone è tutto scaduto e marcio.L’animale notturno, per esempio, è nato perché un mio amico lamentava problemi di insonnia, e mentre parlava ho cominciato a immaginarlo strisciante come lo descrivo nella canzone.
E Il chiodo da quale episodio viene?
Dal paradosso, dal capovolgimento di un senso comune, che è qualcosa che ricerco sempre. Quando si riceve un regalo, non ci si aspetta mai un dispiacere. Io ho pensato a un dono che accelerasse il processo di distruzione del personaggio, o che comunque non gli provocasse una cosa gradita. La cecità non lo è tanto.
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