Informazione, etica e … illegalità

Due considerazioni. La prima: l’Italia si colloca al 40esimo posto nella classifica sulla libertà di stampa stilata da Reporters sans frontières, conquistandosi un posto d’onore tra la Corea del Sud e la Repubblica Ceca.

La seconda: l’Italia è un Paese con un altissimo tasso di corruzione (tanto da figurare, nel rapporto 2008 di Transparency International, solo alla 55esima posizione, ben 14 sotto rispetto all’anno precedente e fanalino di coda tra i Paesi dell’Europa occidentale).

 

Per Giovanni Iacono – coordinatore provinciale dell’Idv, nonché organizzatore, insieme al Centro Studi “G. Dossetti” e al Comitato “Cittadini Invisibili”, dell’incontro sul tema “Informazione, etica e … illegalità” – questi due elementi, disinformazione e corruzione, vanno considerati strettamente legati tra loro, laddove «la vera censura è quella in atto contro la cultura della legalità». Elementi, appunto, cui se ne può aggiungere un terzo, altrettanto grave: l’indifferenza. «Chi si adatta alle circostanze, alla fine le crea; la sistematica disattenzione e tolleranza ai fattori di illegalità non può che essere motivo di sottosviluppo». 

 

Ma cos’è, dunque, l’etica? E che rapporto ha con l’informazione? Riccardo Arena, cronista siciliano, lo spiega attraverso le parole di Pippo Fava, appellandosi al concetto etico del giornalismo da lui enunciato nell’ottobre ’81 sul Giornale del Sud («forza della società», «fatto di verità» e, se inadempiente, «responsabile di vite umane»), per poi passare a un rapido raffronto con altre realtà – quella americana, in primo luogo – allo scopo di mettere in luce le contraddizioni e le pecche del nostro sistema di informazione, pericolosamente incline ad assoggettarsi alla televisione e alle leggi che la governano («la regola della tre esse: sesso, soldi, sangue»). Al contrario, «la vera informazione è quella minuta, quella che non si vede, la notizia in breve che non trova spazio altrove».

Specialmente in un Paese dove la stampa strizza continuamente l’occhio al potere, parlare di questi temi si rivela tanto necessario quanto difficile, poiché – come sostiene Arena – da un lato «il giornalismo è un mestiere cinico che viene manipolato a seconda della bisogna», dall’altro «l’etica è una coperta che tutti cercano di tirare dalla propria parte». Ne consegue «un  modo di informare limitato e limitante», a cui il panorama siciliano di certo non fa deroga.

 

Anzi, a più riprese è stata ribadita l’anomalia dell’informazione locale, con riferimenti espliciti alla mancata distribuzione dell’inserto regionale de “La Repubblica” nella zona orientale della Sicilia, e rimarcando – come ha fatto Giovanni Molè – la responsabilità del precariato nell’offrire una carente qualità del servizio giornalistico, troppo spesso schiavo del gioco politico e, dunque, non più cane da guardia del potere.

 

In queste condizioni, di fronte all’avaria del meccanismo controllore-controllato, difficilmente si può continuare a parlare di Paese civile. «Civilizzato» sì, ma non «civile». Leoluca Orlando insiste con forza  su ciò che rende la situazione italiana speculare rispetto a quella di molte altre nazioni europee:  cos’è, insomma, che ha impedito agli Americani di «bushizzarsi» e ai Francesi di «sarkozizzarsi», mentre non ha evitato – ma anzi favorito – la «berlusconizzazione» degli Italiani? La disinformazione e la mancanza di una dimensione etica, che si ponga a metà strada tra la coscienza individuale e la legge.

Dovrebbe esistere – in definitiva – sia un patto etico tra i politici, che li vincoli a non presentare gente con sentenze di condanna alle elezioni, sia un patto etico tra i cittadini, che li trattenga dall’appoggiare simili candidature. Non ultimo, un sistema informativo efficiente, che non funga da cassa di risonanza dei piani alti.

A tal proposito, gli esempi riportati da Orlando sono molteplici: la scarsa rilevanza  (quando non nulla) data dai quotidiani ai brogli elettorali di Palermo da lui denunciati, o il dibattito sulla Vigilanza Rai.

 

«Stanno abolendo la cronaca giudiziaria – afferma Marco Travaglio – stanno addirittura facendo una legge per impedire ai giornalisti di nominare i magistrati». In questo modo, chi avrebbe mai potuto notare la differenza tra un giudice come Carnevale e uno del calibro di Falcone?

Non si tratta di voler fare del moralismo o del giustizialismo, contrariamente a quanto in genere si risponde a chi affronta questi temi. «L’espressione “questione morale” rimanda, spesso, all’idea di una predica noiosa», e si tralascia un aspetto fondamentale, cioè la controparte economica. «Se non si arriva alla fine del mese – insomma – è perché non abbiamo ancora risolto i nostri problemi con l’illegalità».

Le dimostrazioni non mancano: dall’evasione fiscale all’emergenza sicurezza, passando per il conflitto di interessi.

Anzi, forse sarebbe meglio rivoluzionare il nostro vocabolario, «trovare altri termini, che siano più adeguati ad esprimere quello che succede». Già, perché innanzitutto bisogna chiedersi: «dove sono i titolari degli interessi che sarebbero in conflitto con quelli del presidente del Consiglio? LA7 che fa il 2%?  O Di Stefano che non ha le frequenze per trasmettere, dato che sono abusivamente occupate da Rete4 da 10 anni?». È chiaro che, in un  contesto del genere, parlare di conflitto di interessi non basta più.

Come non può bastare nemmeno appellarsi all’intervento della magistratura. Certo, il suo contributo è indispensabile, ma ci sono delle dinamiche che sfuggono completamente al penale. Non bisogna dimenticare che «le leggi le fanno i politici, i quali, molto spesso, le modificano per non incappare nelle medesime, quando tengono certi comportamenti che magari diventano legali, ma che comunque rimangono immorali».

 

Il Comune di Catania è stato portato al fallimento? «La questione morale di Scapagnini, di Lombardo, di Enzo Bianco, ecc. lascia abbastanza il tempo che trova:  bisogna andare a vedere quanto è costato ai cittadini di Catania – e non solo – quel sistema. Sono catanese? Pagherò. Non sono di Catania? Pagherò lo stesso, per rattoppare i buchi del comune di Catania, del comune di Palermo, di Taranto, e di quei tanti altri comuni che sono così bene amministrati».

E ancora: quanto influisce sulle nostre tasche l’evasione fiscale? Tanto. E su chi? Sui cittadini che già pagano le tasse, naturalmente. «Sono state istituite delle soglie di  non punibilità talmente gigantesche che ci stanno dentro quasi tutti: per entrare nel penale bisogna evadere oltre i 70-80mila euro all’anno. Cioè – continua Travaglio – bisogna non dichiarare circa 200mila euro all’anno». Perciò, sì:  «l’evasione fiscale sarà una questione morale,  entro certi limiti anche una questione penale, ma è soprattutto una questione di soldi». A questo quadro, si aggiunge la Franceschini-tax, che riceve l’affondo del giornalista: «credo che un centro-sinistra degno di questo nome dovrebbe cominciare a pretendere i soldi da chi non le paga le tasse, e non continuare a massacrare quelli che le pagano».

E poi, la sicurezza. Un problema serio, senz’altro. «Ma anche questo è figlio del mancato rispetto delle regole da parte di quelli che le regole le fanno». L’immigrazione importa delinquenza? Esattamente per lo stesso motivo per cui l’Italia esporta (o, meglio, mette in fuga) cervelli: «con il mercato europeo aperto, con la libera circolazione delle merci e delle persone, tutti i Paesi sono in concorrenza tra di loro». Un ricercatore opterà per il Paese che gli può offrire di più; in ugual modo, un delinquente farà ricadere la propria scelta sul posto dove rischia di meno. Nella fattispecie l’Italia, la cui legge sull’immigrazione – continua Travaglio – stabilisce che, chi viene qui per cercare lavoro, deve già avere un lavoro: si va fuori da ogni logica.

Tutto il resto è spot: le ronde, elevate a simbolo di vittoria, non sono altro che una «dichiarazione di resa»; si grida all’emergenza, ma «le volanti sono tutte a secco perché il governo della sicurezza ha tagliato i viveri».

E nell’amministrazione, così come negli uffici, spesso di etica non c’è traccia. La conclusione? Spesso, in Italia, ci vuole coraggio ad essere persone perbene: è anche una questione numerica.

Come dire? Così fan tutti …


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