Il giornalista palermitano Dario Cirrincione ha intervistato gli eredi di chi ha occupato le pagine peggiori di cronaca nera. Dai Riina ai Provenzano passando anche per Atria. «Vivono una dicotomia: "Mio padre era bravo, il boss ha sbagliato"», dice a MeridioNews
In un libro le storie dei figli dei boss in cerca di riscatto «Si sentono sbagliati e a lavoro porte chiuse in faccia»
«L’Italia è il paese dei “figli di”. Molti giornalisti sono figli di giornalisti, così vale per i medici, gli avvocati, i notai, i politici. Mi sono domandato se i figli dei boss delle mafie seguissero, in qualche modo, la stessa regola». Nasce da questo interrogativo il libro Figli dei boss scritto dal giornalista palermitano classe 1983 Dario Cirrincione – per anni volto di Skytg24 – e pubblicato la scorsa settimana da San Paolo editore. «Vite in cerca di verità e riscatto». È il sottotitolo del libro che racconta le storie di questi eredi delle mafie che portano addosso il fardello di un cognome ingombrante, come Riina e Provenzano ma anche Atria.
Decine di storie di giovani che hanno scelto anche strade alternative a quelle criminali che sembravano per loro già segnate. Essere figli di boss è ancora una discriminante e, a seconda delle situazioni, può diventare un pregio o una colpa. «Con i protagonisti del libro – racconta Cirrincione a MeridioNews – all’inizio c’è stata un po’ di ritrosia, poi curiosità, fino a quando si è instaurato un rapporto di fiducia. Spesso si sentono sbagliati e costantemente fuori posto».
Cantanti, attori, registi, impiegati, studenti «ma soprattutto ragazzi in cerca di lavoro – spiega l’autore – che si ritrovano a fare i conti con mille difficoltà nel momento dell’ingresso nel mondo lavorativo». Non solo perché la maggior parte di loro vive nel Mezzogiorno dove il tasso di disoccupazione giovanile è più alto della media nazionale ed europea, ma anche perché «”Uno con un cognome come il tuo non posso assumerlo” si sentono ripetere come giustificazione da potenziali datori di lavoro, oppure “appena ti assumo mi ritrovo le forze dell’ordine in azienda che vogliono sequestrarmi tutto perché pensano che la tua assunzione sia un modo per riciclare denaro sporco“», illustra il giornalista che ha deciso di devolvere i diritti d’autore in beneficenza al Centro studio Pio La Torre.
«Solo due dei ragazzi che ho intervistato hanno preso consapevolezza di poter essere liberi nonostante il cognome che portano. Gli altri si dividono tra chi si è sempre sentito libero, perché considera la famiglia non legata alla criminalità organizzata anche se le sentenze dicono il contrario – precisa l’autore – e chi sa di non potersi mai liberare dal destino di chi l’ha preceduto, nonostante faccia di tutto per riuscirci». Modi diversi di stare al mondo, nonostante un comune peccato originale con cui confrontarsi ogni giorno. «In tutti ho riscontrato un grande attaccamento alla famiglia, ma non nell’accezione mafiosa». Stima e affetto verso i genitori dai quali non sempre hanno preso le distanze e nei confronti dei quali vivono una dicotomia. «Ho avuto la sensazione che i figli dei boss giudichino i propri genitori con due modalità diverse – spiega Cirrincione – distinguendo il padre dal boss: “Papà era bravo, ci ha sempre voluto bene. Il boss ha sbagliato e ha fatto cose che non andavano fatte”, è una delle frasi più ricorrenti».
Ma che cos’è la criminalità organizzata per i figli dei boss? «Non c’è un’unica risposta – precisa il giornalista – Per esempio, Vita Maria Atria (la figlia di Nicola Atria – figlio del mafioso don Vito legato alla famiglia degli Accardo di Partanna in provincia di Trapani, ucciso quando lei aveva tre anni – e di Piera Aiello – la prima storica testimone di giustizia oggi eletta in parlamento – e nipote di Rita Atria, suicida dopo la morte di Paolo Borsellino, ndr) mi ha detto che “la mafia è un fenomeno che prima o poi andrà via“. Vincenzo e Francesco Tiberio parlano di una camorra del passato che fa a cazzotti con la delinquenza di oggi “spacciata per camorra, ma senza codici né regole“; tra i figli di ‘ndrangheta c’è chi la “conosce solo per sentito dire” e chi sa che esiste, “ma non si vede, né si sente“».
La maggior parte dei figli dei boss ha avuto consapevolezza di esserlo da bambini o, al massimo, durante la prima fase dell’adolescenza. «In molti casi lo hanno appreso nel peggiore dei modi: quotidiani, tv, carte processuali trovate a casa o discussioni origliate in famiglia – ricostruisce Cirrincione – Uno dei ragazzi mi ha raccontato di avere visto il padre in piedi solo da adulto». Un modo elegante per dire che da bambino non aveva mai visto il genitore a figura intera e non lo aveva mai toccato perché, sottoposto a un regime di carcere duro, lo trovava già seduto al di là del vetro. «Quando la scoperta è arrivata in età adulta, penso ai Riina o ai Provenzano – aggiunge – è scattato un meccanismo di autodifesa e di rinascita. Pur non prendendo le distanze, una parte dei figli dei boss è morta con l’arresto dei loro padri».