Il voto all’estero e il silenzio sul referendum

Nel giorno della festa della Repubblica italiana, siamo costretti a domandarci che ne sarà del nostro diritto di voto. E infatti, nonostante con l’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum dell’1 giugno, la Suprema Corte di Cassazione abbia salvato la consultazione elettorale sul ritorno dell’Italia all’energia nucleare, si è aperto il problema sul significato da attribuire al voto dei cittadini italiani all’estero, i quali hanno già espresso la loro opinione sui quesiti referendari, così come formulati precedentemente al citato intervento della Corte di Cassazione.

Per indire questo referendum si sono costituiti spontaneamente comitati di cittadini ed associazioni su tutto il territorio nazionale per reclamare il diritto di parola su temi di certa rilevanza per il futuro della nostra nazione. Questi comitati hanno raccolto le 500.000 firme necessarie per la richiesta di referendum, spesso nel più assoluto silenzio mediatico e parlamentare. La Corte di Cassazione ha accolto queste firme, salvo poi avere da ridire sul contenuto del quesito sull’abrogazione parziale di norme relative alle “Nuove centrali per la produzione di energia nucleare” a dieci giorni dall’apertura dei seggi.

La storia di questi quesiti è assai bizzarra. Con poche eccezioni, da destra a sinistra, i partiti rappresentati in parlamento non hanno dato risalto né alla mobilitazione dei cittadini né agli stessi quesiti referendari. Ugualmente, le televisioni pubbliche e private hanno mantenuto un silenzio imbarazzante sull’imminente consultazione popolare, mettendo a repentaglio il raggiungimento del quorum.

Il 26 maggio, circa quindici giorni prima dell’apertura delle urne, il governo ha varato il decreto Omnibus, con il quale viene introdotta una moratoria di due anni sul nucleare. Il Presidente del Consiglio si è affrettato paternalisticamente a spiegare che, all’indomani della tragedia di Fukushima, “[…] se fossimo andati oggi al referendum, non avremmo avuto il nucleare in Italia per tanti anni”. “Per questo – ha proseguito Berlusconi – abbiamo deciso di adottare la moratoria, per chiarire la situazione giapponese e tornare tra due anni a un’opinione pubblica conscia della necessità nucleare”. In altre parole, per impedire che i cittadini si esprimano sul nucleare, il governo ha ritirato in corsa le norme oggetto del contendere, un maldestro giochetto che accetteremmo di certo da una combriccola di bambini intemperanti, ma non dall’esecutivo di un paese civile.

Il governo ha giudicato questa moratoria talmente rilevante da sottoporla al voto di fiducia. Una fiducia, strappata con 313 sì e 291 no in parlamento. Una fiducia lacerata radicalmente nelle menti e nei cuori dei cittadini che vogliono dire la propria in materia di energia nucleare.

Nonostante ciò e al fine di salvare la consultazione referendaria su temi così importanti, alcuni partiti e associazioni ambientaliste (IDV, PD e WWF), hanno proposto un ricorso all’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione, sostenendo la necessità che la consultazione popolare si svolgesse sulle disposizioni di legge ora vigenti in materia di energia nucleare. Giorno 1 giugno, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla moratoria e sul futuro del quesito sul nucleare. Essa ha stabilito che la moratoria non è sufficiente per evitare il referendum, poiché questa rinvia soltanto la decisione di aprire nuove centrali per la produzione di energia nucleare. Alla luce della modifica legislativa, il referendum abrogativo ora riguarda i commi 1 e 8 dell’art. 5 del decreto Omnibus, che sospendono il programma nucleare in attesa degli stress test europei e della rimodulazione della politica energetica nazionale.

Tuttavia, l’intervento dell’Ufficio Elettorale presso la Corte di Cassazione sul quesito referendario citato comporta una serie di questioni tecniche, la cui soluzione non è chiara. Infatti, non soltanto le schede elettorali relative al quesito sull’energia nucleare devono essere, a pochissimi giorni dalla consultazione elettorale, ristampate, così aumentando i costi e complicando l’organizzazione delle oramai imminenti elezioni, ma non è neppure chiaro il significato da attribuire ai voti già espressi sul quesito referendario, frattanto mutato, da parte dei cittadini all’estero. E infatti, questi hanno già espresso le loro preferenze su tutti e quattro i quesiti referendari, così come formulati prima che l’Ufficio Centrale presso la Corte di Cassazione si pronunciasse. La successione di eventi verificatesi e la dinamica tra le Istituzioni hanno, in altri termini, reso vano il voto degli italiani all’estero sul quesito referendario relativo al nucleare che dovrà, pertanto, essere ripetuto. Ciò determina ulteriori e sin’oggi inedite questioni, in ordine ai tempi di conclusione delle operazioni elettorali e, in generale, della loro gestione, nonché ai relativi maggiori costi che l’improvvida scelta del governo ha generato. 

Ricapitolando: si sono costituiti comitati spontanei per raccogliere le firme per un referendum sull’acqua, il legittimo impedimento ed il nucleare. La Cassazione ha accettato che queste 500.000 firme venissero depositate. Il governo e gran parte del parlamento hanno mantenuto un silenzio assordante sul referendum. I cittadini si sono addossati l’onere di promuovere e pubblicizzare il referendum del 12 e 13 giugno. Il governo ha adottato una moratoria sospendendo temporaneamente il proposito di costruire nuove centrali nucleari. La Corte di Cassazione ha ritenuto che il quesito sul nucleare andasse mantenuto, ma ha disposto che il quesito venisse modificato nella forma.

Se non si trattasse di questioni vitali per la buona salute della nostra democrazia, verrebbe quasi da ridere.

E’ la sedicesima volta dal 1974, che i cittadini sono chiamati ad esprimersi tramite referendum. Nel maggio del 2000, Giovanni Sartori si pronunciò sull’abuso dell’istituto referendario in Italia. Sartori mise in risalto una duplice beffa ai danni dei cittadini e dello strumento referendario: il ricorso eccessivo al referendum e l’astrusità dei quesiti referendari. Nello scrivere queste righe, Sartori aveva certamente in mente quesiti quali quelli presentati nel 1993, che invitavano i cittadini ad esprimersi sull’abolizione del Ministero delle Partecipazioni Statali, del Turismo e dello Spettacolo o dell’Agricoltura, o ancora quello degli anni 1990 sull’abolizione della “servitù d’elettrodotto”.

Sono passati undici anni da quando queste affermazioni sono state espresse. Ma i quesiti referendari sui quali siamo chiamati ad esprimerci il 12 e 13 giugno si distinguono fortemente, per forma e per contenuto, da quelli contestati da Sartori. Sono quesiti leggibili e chiamano i cittadini ad esprimersi su temi di estrema rilevanza per la popolazione e per il territorio nazionale. L’Italia, al pari di ogni altro paese, deve decidere come gestire i beni pubblici, come immaginare la propria politica energetica e come declinare la parola giustizia nella democrazia italiana che verrà.

I cittadini si sono mobilitati per poter esprimere la propria opinione sull’Italia che vogliono. Il proliferare di libere associazioni di cittadini e cittadine, spesso disaffezionati dalla politica dei palazzi, dimostrano che in Italia c’è sete di politica e che i cittadini hanno voglia di partecipare alla vita politica del paese, quando la politica parla di tematiche serie e a loro vicine.

Chiamati ad adempiere il nostro diritto-dovere di voto di cittadini all’estero, molti di noi hanno già votato, per essere sicuri che il nostro voto pervenisse al Consolato d’Italia entro il 9 giugno, come espressamente dichiarato nella cedola elettorale.

Ora, esigiamo di sapere cosa ne sarà del voto dei cittadini all’estero.


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