«Il velo si sopporta, se si è libere di pensare»

E’ passato quasi un anno dalle immagini di un Iran in rivolta. Da quando i giornali e le televisioni raccontavano di urla notturne di protesta sui tetti delle case, mentre di giorno i social network venivano presi d’assalto. Messaggi sulle manifestazioni, gli arresti, la solidarietà verso chi si opponeva al governo – quello di Mahmud Ahmadinejad – e ad una società controllata dalla polizia religiosa. Si erano spenti i riflettori su queste lotte, tra le minacce di sanzioni da parte dell’Europa e degli Stati Uniti, e il lancio di sassi di miliziani travestiti da civili contro le ambasciate, compresa quella italiana. Ieri, nel trentunesimo anniversario della rivoluzione islamica, altri scontri e tre morti sono tornati per ricordare che, nel Paese, il vento d’opposizione spira ancora forte.

Frammenti di Iran che raggiungono le prime pagine dei giornali e le scalette dei tg occidentali. Ma com’è la vita vera, quella di tutti i giorni, laggiù? Ce lo ha raccontato Sanaz, una ragazza di origini iraniane, studentessa di Lingue e letterature straniere all’Università di Catania. Ha 26 anni, vive in Italia da quando ne aveva tre e qui è nata sua figlia, che adesso ha cinque anni. Eppure Sanaz non ha mai interrotto il rapporto con l’Iran, fatto di lunghe vacanze estive, parenti e amiche ritrovate. Ma anche di privazioni, qualche arresto subito e una doppia cultura. Ha la bellezza proverbiale delle donne iraniane, Sanaz, e il modo di vestire e la spigliatezza tutte occidentali.

Non è un’intervista quella che vi proponiamo, ma una chiacchierata tra la redazione e Sanaz, sulla vita, la scuola, i rapporti e le manifestazioni laggiù, in Iran. Chi scrive insieme a Francesco Currò, Valeria Giuffrida, Mario Grasso, Desirée Miranda, Stefania Oliveri e Carmen Valisano, le ha rivolto, in un’aula dell’ex Monastero dei Benedettini, una pioggia di domande, curiosità e perplessità.

Cosa ti ha portato in Italia?
«Quando sono arrivata avevo tre anni e mezzo. Era l’86 e la guerra tra Iran e Iraq era già iniziata da un po’, ma la paura vera per la mia famiglia è scattata dopo la morte di una mia cugina di diciotto anni. Così i miei genitori hanno deciso di portare me e i miei fratelli qui a Catania, dove già studiavano due miei zii. Non appena è stato possibile sistemare i documenti per il rimpatrio, sono iniziate le mie lunghe vacanze iraniane, ogni estate, per due, tre mesi. Ogni volta non vedevo l’ora di partire, per rivedere gli altri parenti e le amiche che avevo lasciato da bambina. Così ho mantenuto un forte legame con il mio Paese, un rapporto sempre vivo, ma doloroso, perché non è mai libero. In Iran è tutto falsato, niente è come sembra, e non puoi mai scegliere serenamente se stare lì o qui. Ma questo lo sapete».

 
E’ l’Iran che vediamo sui giornali o in televisione?
«Non proprio. Qui si vede solo Teheran, e l’Iran non è solo quello. Forse ci si deve vivere almeno qualche mese per capire come sono gli iraniani e cosa pensano».

 
Prima delle elezioni di giugno, i giovani iraniani non si sono visti quasi mai in tv…

«Eh, tutti quelli che si sono visti sono morti!».
 
… appunto, si parla di generazione annullata. Ma che giovani sono, in realtà, gli iraniani?

«Negli ultimi anni sono cambiate molte cose. I giovani di oggi sono diversi, hanno più aspettative, più desideri, non sono così accondiscendenti come in passato. Bisogna tenere presente che i ragazzi sono quasi tutti studenti universitari, quindi con una mentalità più aperta. Le tecnologie poi sono molto evolute rispetto a qualche anno fa, basta pensare a cosa hanno fatto Twitter, Youtube e Facebook durante le manifestazioni. I ragazzi così hanno cercato di fare conoscere al mondo cosa stava accadendo, perché hanno capito che da soli non potevano farcela. Credo, però, che fino ad adesso abbia influito tantissimo la droga, un tasto dolente del mio paese».

 
Perché?
«Vedete, quando torno in Iran, frequento sia i quartieri alti, con i ragazzi ricchissimi e viziati, sia quelli bassi, dove sta la vera gente. In tutte le case ho sempre visto circolare droga, tra gli adulti e tra i ragazzi, tutti ne fanno uso. Dall’Afghanistan ne arriva di ogni genere e alla portata di tutti. Sembrano dei tossici, è un popolo assopito. Che la polizia ogni tanto picchi qualche gruppetto di persone, per far vedere che combatte il narcotraffico, a me fa ridere».

 
Ed è proprio la casa il centro della socialità, giusto?
«Praticamente sì. Ma questa non è vita, specie per una ragazza. La tua autonomia dipende molto da che famiglia vieni, se è fanatica, integralista oppure no. A scuola non va meglio: devi stare zitta, non puoi mai esprimere un parere, studi solo quello che loro vogliono. Prendi la letteratura, mica lì studiano quella di tutto il mondo. Neppure in libreria trovi tutto: mancano gli scrittori russi e quelli francesi. Non so se fanno come per i film: magari strappano le pagine e tagliano le righe… Mi è capitato di vedere in Iran dei film italiani, irriconoscibili. Dicevo “Ma io l’ho visto, non è così! Ne manca un’ora!”. E se uno studente vuole fare una ricerca, è pure peggio: gli archivi iniziano dal febbraio del ’79. Della storia dell’Iran, quella di prima, non c’è più nulla. E, se chiedi, ti senti rispondere in modo sospettoso “Perché? A che ti serve?”».

 
A scuola com’è?
«Pesante. Ovviamente esistono scuole separate per uomini e donne. Solo l’università è mista, ma con le dovute distanze. D’altronde, in Iran, un ragazzo e una ragazza non possono nemmeno passeggiare insieme se non sono fidanzati ufficialmente, con tanto di scritto che lo provi. Lo studio comunque è duro, ma soprattutto non c’è un vero rapporto tra le studentesse e le docenti. Ogni mattina ti ispezionano per vedere se sei truccata, se ti togli le sopracciglia, se sei vestita bene e se sei abbastanza coperta. Durante la mattinata, poi, ci sono i blitz a sorpresa nelle classi, dove ti controllano le borse: se hai soltanto una limetta, sono guai. La parte peggiore è quando vogliono insegnarti l’etica: ci sono dei giorni appositi in cui, ad esempio, viene bruciata la bandiera americana».

Ma per i ragazzi va un po’ meglio?
«A dire la verità, non lo so se è più difficile in Iran per una ragazza o per un ragazzo. Anche gli uomini subiscono molto. Ti dico solo che lì, se sei un uomo e hai i capelli lunghi, è un problema: la polizia ti ferma per strada e ti portano in caserma. L’ho visto con i miei occhi».

E che ci facevi tu, in caserma?
«Sono stata arrestata un paio di volte, l’ultima ad agosto del 2008. Tornavo dalla palestra, quindi ero completamente struccata e vestita in modo normale, con un paio di pantaloni larghissimi. Avevo però un soprabito, lungo fino al ginocchio, ma un po’ sagomato, come quelli che si usano qui in Italia. Si ferma una camionetta, scende una poliziotta con il suo chador e mi dice “Sorella, è assurdo che tu vesta in questo modo, si vedono tutte le forme! Devi venire con noi”. Ha cercato di convincermi che voleva solo parlarmi, spiegarmi alcune cose, ma io sapevo che non era vero: volevano portarmi in caserma, e così è stato. Lì mi hanno chiesto le generalità, mi hanno fatto le foto segnaletiche e si sono arrabbiati perché non so scrivere bene in farsi. Figuriamoci quando gli ho detto che potevo scriverlo in italiano, mi hanno guardata malissimo. Alla fine, solo per questo, mi hanno trattenuta sei ore, facendomi giurare che non avrei mai più girato vestita in quel modo. Sono potuta uscire solo quando mia madre mi ha portato un cappotto lungo fino alle caviglie. Mi è andata bene, lì non sai nemmeno se, quando esci e soprattutto come».

Ci sono forti differenze, quindi, se sei un’iraniana emigrata che ritorna?
«Amici e parenti ti considerano una sorta di vigliacca, che ha lasciato questa vita dura per stare nella bambagia. Ma è dalle istituzioni, ovviamente, che vengono i pregiudizi più pesanti. Sei vista come una ragazza poco seria, perché sanno che lì sei coperta e osservi certe regole, ma appena sei fuori fai quello che vuoi».

Sanaz, tu hai una bambina piccola. L’hai mai portata con te? La faresti crescere in Iran?
«Lei ha cinque anni e l’ho già portata due volte per un mese. Tengo al fatto che impari e conosca la diversità, affinché sia più aperta e capisca che non tutti i ragazzi e le ragazze sono liberi, soffrono e vivono in modo diverso. Se sia giusto o sbagliato deve deciderlo lei, ma sarei folle a farla crescere lì, perché le toglierei i diritti che ha adesso. Eppure mi pesa non poter dire, un giorno, “Se le cose qui mi vanno male, torno in Iran”».

E l’anno scorso, durante gli scontri, sei tornata?
«No, sarei tornata volentieri, ma non ho trovato tutti molto d’accordo, e di certo non sarei andata con mia figlia. Sicuramente sarebbe stato giusto andare a protestare, ma poi pensavo che un ragazzo o una ragazza, solo per essere lì, si beccano una pallottola e muoiono. La cosa più brutta, comunque, è stato vedere quello che stava succedendo e non poter comunicare con loro, per le linee intasate o interrotte dal governo».

 
Come ti sei informata durante quei mesi?
«Niente televisione, perché la detesto, permetto solo a mia figlia di vedere i cartoni animati nella sua stanza. Quindi ho usato molto Internet e, quando andavo a casa di mio padre, ho visto i canali iraniani e internazionali. Così mi sono resa conto di come le notizie venissero date in modo completamente diverso».

 
Cosa pensi di Neda, la ragazza che è diventata il simbolo della lotta contro Ahmadinejad, e del video della sua morte, che ha fatto il giro del mondo?

«Il simbolo non lo capisco. Come lei, è morta tantissima altra gente perché i cecchini sparavano dai tetti. Perché proprio lei? Forse perché dal video si vedeva il sangue in viso? Non condivido questa brutalità del filmato amatoriale, e ne ho visti di peggiori. Il simbolo, secondo me, sono quel numero impreciso di ragazzi che sono morti e non si saprà mai quanti sono».

Eppure l’Iran avrà degli aspetti positivi, magari culturali o sociali…
«Io distinguo molto il governo e la politica dalla gente. Anche perché, se torno, un motivo ci sarà. Una cosa che noto sempre è come le persone riescano a vivere in modo semplice, con pochissimo. E un’altra che mi piace tanto è vedere gli iraniani, di tutte le età, seduti nei bar, o per strada a chiacchierare di politica e di storia. Sfido chiunque a trovare un iraniano che non conosca benissimo la storia del suo Paese».

Come vedi l’Iran del futuro?
«Alcune cose sono cambiate, ma molte sono rimaste quelle che erano. Io spero che cambi nella sostanza. Vorrei più libertà, nemmeno come la intendiamo noi qui, ma che si capisca che non si può tenere un popolo in queste condizioni, non si può togliergli proprio tutto. Poi finisce come abbiamo visto, che la gente si fa sparare per strada. In Iran le persone non hanno la possibilità di esprimere un’opinione, di scrivere su un giornale o sul proprio Facebook, perché te lo bloccano. E’ questo che fa più male, non il velo o non poter mettere i pantaloncini corti. Quello lo sopporti, non te ne frega niente, purché tu abbia la possibilità di pensare, parlare e vivere la tua socialità liberamente».


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